QUALUNQUE

Ma scava, allora, scava,
furetto, animaletto, ragno
talpa.
Perché tutto ormai si offre
come forma balenante. Di nuovo un treno
e l’insegna blu e bianca nel primo mattino. Dove sei?
Nel sogno del sogno nel bosco
delle parole. E se senti le voci
parlano, ascolta. Le cose
continuano ad essere,
a frenare l’istante nel suo correre sfinito
dall’occhio alla perdizione.

È la storia di una ribellione contro il silenzio e la falsificazione degli affetti quella narrata da questa intensa e compatta raccolta di poesie. Una storia che comincia da lontano nella forma di un dialogo con la figura materna e che assume poi, nella seconda parte del libro, una dimensione corale, quasi politica nell’urgenza delle sue rivendicazioni. Ma la salvezza, in questo caso, non può prescindere dall’appropriazione di un linguaggio capace di dare ad ogni cosa il suo nome, “qualunque sia la cosa / e qualunque sia il nome”, come recitano i versi di Margherita Guidacci posti in apertura dell’opera. Ed è qui, nelle fibre psicologiche e sociali che legano le parole alle “cose” del mondo esterno (Matteo Terzaghi)

Qualunque sia il nome, Bellinzona, Casagrande, 2003, prefazione di Fabio Pusterla, Premio Schiller 2004.


Rassegna stampa:

Un esordio molto notevole, quello del ticinese trentacinquenne Pierre Lepori. Una poesia complessa e di qualità, impeccabile, equilibratissima eppure varia nella scrittura, capace di affrontare tematiche diverse con piena originalità e ricca articolazione interna: i rapporti parentali, il dolore e il rischio dell’esistere, il senso del corpo, il valore della parola. Non una promessa, ma l’inizio sicuro di un poeta nuovo. Maurizio Cucchi, « La Stampa » (Specchio) 
7.11.2003

[…] E’ un libro complesso, poematico, con una struttura forte che non si esaurisce in una poesia singola. E’ un poema etico e non a caso, in epigrafe, troviamo, oltre a Marguerita Guidacci, la grande poetessa Ingeborg Bachman, che ha segnato con il suo linguaggio un cammino verso l’eticità della scrittura. Stefano Raimondi “Inserto” (a.c. M.G.Rabiolo e I.De Marchi) 
RSI-Rete2 
17.11.2003

Una delle parole ricorrenti ( tema, Leitmotiv) della non « facile » , no, poco memoralizzabile poesia di Pierre Lepori è la parola muro. Ancora più ricorrente è la parola bambino… Ma non starò qui, in questa magrissima segnalazione, a perdermi in statistiche. Piuttosto si può consentire con Fabio Pusterla che nella densa presentazione […] ricorda Ungaretti: « Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia » bene – dice Pusterla – questa è una poesia di puro supplizio. […] Giovanni Orelli, « Azione », 20.11.2003

[…] Alternando sapientemente movimenti lirici e descrittivi, la pagina s’imprime degli umori di una vicenda raccontata attraverso punti di vsta diffrenti: la voce individuale del poeta è un coro. Perché tutto ormai si offre come forma balenante. E il testo […] s’intrufola, […] attraversa il bosco delle parole, […] disvela e nasconde insieme, nell’unico atto di resistere alla perdizione, al deficit originario che marchia il cuore dell’essere umano, moneta in cui gioia e dolore sono facce inscindibili e vorticanti. Marco Merlin, « Il Domenicale », 
23.11.2003 (https://www.andreatemporelli.com/2016/08/22/e-la-voce-diventa-un-coro/)

Se la garanzia ultima di un’opera poetica è data dal quoziente di necessità, dalla pulsione profonda che spazza via ogni nicchiare estetico ed estetizzante, si può dire che quest’opera prima di Pierre Lepori centri il bersaglio della poesia onesta di sabiana memoria. Il volume – composto da due parti simmetriche ma dalla diversa teleologia – propone un vero e proprio percorso gnoseologico, che attraversa gli strati del tempo e del corpo, per sbucare (come da una buca, da un remoto e implacabile funerale della ragione, condotto con protervia dal sistema familiare) in un territorio nuovo, desolato ma libero. Territorio carnale di parole, ritte in piedi contro la macina delle generazioni. Un viaggio capace di furori sgraziati, di bruschi cambiamenti di ritmo, giustificati dalla strada accidentata verso un sapere nuovo. Una conquista ad ogni costo. Antonio Recanati, “Diario poetico”, marzo 2004

E’ davvero difficile dire l’entusiasmo con cui si accoglie un volume come questa complessa e articolata quanto compatta raccolta di Pierre Lepori. Tutto è all’insegna dell’equilibrio e della compostezza, quella reale, ossia quella calma che sta sopra al pentolone ribollente di un animo vivissimo ma è tesa a risparmiare le energie, evitare manifestazioni scalmanate e puerili per andare direttamente al midollo, al problema. Tale problema è il rapporto parentale, il complesso gioco dell’esistere, il rapporto con sé e il prossimo sotto l’aspetto tanto corporeo quanto linguistico. E l’inganno, al quale è dedicata la prima poesia: « Erano sere uguali allineate, / tavole un tempo imbandite, festino ora deserto: / ore lente del quasi l’alba tra i castagni, / e luci sulla neve alla lontana. // […] Ma è ancora l’inganno / come un latrato nel silenzio, sempre. / Stranamente la pace ha conservato / l’occhio felino dell’odio. La voce d’avvoltoio ». […] Sandro Montalto,
« La Clessidra », anno X, n. 2, 
novembre 2004

Insomma, su premesse liriche, se è vero che « gridare dentro non è / gridare per tutti », il ‘grido da dentro’ consegna più volte un poeta di sicuro interese quando la lotta delle generazioni […], e l’accadere della violenza – con la sua figura intrinseca, la sterilità – fosse anche soltanto per eco ‘privato’ della violenza della storia, avviene nel chiuso teatro del testo che ha nell’io dell’autore la prima condizione di ascolto, dove è possibile « piantare un grido / esattamente al centro del gorgo come un ramo », al « lato caldo della luce ». Fabio Zinelli,
 »Semicerchio », XXX-XXXI, 2004

Pierre Lepori, dopo la scelta di poesie apparse nel Settimo quaderno di poesia italiana (Milano, Marcos y Marcos, 2001, a cura di Franco Buffoni), ha pubblicato Qualunque sia il nome (Bellinzona, Casagrande, 2003, pref. di Fabio Pusterla) e Vento (Faloppio – Como, Lietocolle, 2004, pref. di Stefano Raimondi). Considerando il carattere dell’indagine poetico-analitica che l’autore avvia con se stesso e la propria vicenda, in rapporto alla famiglia e al mondo esterno, potremmo dare alla sua poesia l’appellativo di esistenziale (“Ma l’esistenza impedisce di esistere”), con una precisazione: egli reagisce alla vischiosità della sofferenza, con la quale molti paiono andare a nozze, per intraprendere, attraverso una complessa e meditata elaborazione, la lotta contro il male costituito innanzitutto dall’inganno e dai colpevoli silenzi. Il passo anabatico, l’apertura del “libro dei morti”, lo spingerà infatti a una sovversione intima e alla luce della parola piena, con una manovra che, prima di Freud, ricorda Nietzsche. Ecco perché, pur non rimovendo i caratteri specifici della poesia, egli apre una serrata e impietosa ricerca in cui si sente bene come scrivere non significhi sfogarsi, ma giungere, tramite l’atto di parola, alla scoperta di se stessi e al vero inizio del lavoro: “Non puoi negarlo: nato oggi, / tutto comincia con la richiesta di aprire, infine, / il libro dei morti[…]”. Come può accadere durante un’analisi, il poeta avvia una elaborazione che lo porterà ad abbandonare la posizione comoda di chi accusa e si lamenta, per scoprirsi come parte in gioco e procedere con moto ascendente verso Il senso della battaglia. Mossa politica, sulle lontane tracce di Leopardi, dal momento che il male non vuol più essere svelato in solitudine, bensì denunciato tramite il passaggio dall’io al noi, un noi che dà energia alla ribellione e permette di riposizionarsi in una nuova strategia poetica: “e un dolore privato è poca cosa. Solo, gridare dentro non è / gridare per tutti”. Il fatto che Pierre Lepori non civetti con la letteratura (le citazioni, nell’assumere un valore i ponti ermeneutici, credo rispondano a un desiderio di affratellante riconoscimento) e che il suo impegno sia diretto a scoprire il male mascherato (“Stranamente la pace ha conservato / l’occhio felino dell’odio. La voce dell’avvoltoio”), non lo obbliga a eliminare la bellezza e una già velata musicalità dal lavoro poetico, perché se l’esistenza può impedirci di esistere, la realtà non è rappresentata dall’univolto, bensì dal molteplice, con relativi effetti di adesione, contrasto e repulsione sull’animo di chi la vive. Il bene e il male provengono dallo stesso luogo, direbbe Giampiero Neri, e riuscire a individuarli dietro le maschere – calzate per ingannare, ma anche per timidezza – raggiungere insomma effetti di verità, contro le Verità di comodo, provoca quel senso di godimento, risalita e liberazione che in Pierre Lepori coincide con la scoperta della sua voce poetica. Silvio Aman, « Tellusfolio », 6 novembre 2007

Difficile sostenere il peso di una poesia « esistenziale » senza lasciarsi tentare da quello che è stato chiamato il mito autobiografico. Oppure, per vie opposte, senza cedere alla voglia di recensire passivamente frammenti del proprio vissuto, come accade presso troppi epigoni del crepuscolarismo. Con la sua raccolta Qualunque sia il nome ( Bellinzona, Casagrande 2003), a mio parere una tra le poche opere prime notevoli degli ultimi anni nella Svizzera italiana, Lepori dimostra di saper schivare entrambi i pericoli. Che il suo mondo poetico si costruisca su un fondale dominato dal romanzo familiare (dai suoi riverberi traumatici, dal prudere di antiche e dolenti cicatrici che si tramandano per generazioni) è indubbio.
Ma a risolvere su un piano più alto l’antefatto di cronaca di cui è stato pur necessario conservare fino in fondo gli umori attraverso accenni memoriali replicati, spesso crudeli, interviene una concezione poetica decisa ad affrontare il lungo percorso che dall’ìnaugurale avvertimento del magma inenarrabile, dalla sempre lacunosa registrazione del vissuto, s’indirizza  » verso la riappropriazione del dire » […]. Gilberto Isella
, « Giornale del Popolo », 
9.12.2003

Il libro di Pierre Lepori, Qualunque sia il nome offre ai lettori una provocazione stilistica, mentre a me dà modo di innescare una micro-polemica sulla scelta dei temi. Per quanto mi riguarda, trovo un po’ difficile condividere una delle tesi del prefatore Fabio Pusterla, il quale parla di riscatto, all’interno di una storia autobiografica. Non ho avvertito questa cifra narrativa, mentre mi sono trovato d’accordo con lui quando ha definito questa poesia, la poesia del gesto e del corpo. Forse, conoscendo l’autore, egli avrà avuto modo di conoscerne la vita; provate però a mettervi nei panni di un lettore occasionale e vedrete, questi, cosa potrà dirvi sul mistero insito in un tale progetto! Dico subito che il dettato dell’autore è in molti punti pregevole; aggiungo anche la mia nota entusiastica sul tono fermo, da poeta ormai saldo. Lo scarto retorico, all’interno di questo Qualunque sia il nome è alto; le sinestesie si tagliano a fette, mentre le allitterazioni e le assonanze (specialmente in –ato, –ate, ati ecc.) danno alla scrittura un tono un po’ querulo e ansioso. I colori sono, appunto, “assordanti” e appartengono a un sole “che si schiuma” nel bianco indisponente della neve. Il viaggio è di frequente ricordato, e parrebbe sempre un viaggio-lutto, mentre la situazione contingente e la “location” dei fatti parrebbero appartenere all’onirismo più convinto. I sogni però sono autentici incubi rattenuti, come cristallizzati in una sorta di cronicità latente. Il poeta fugge da qualcuno o da qualcosa (e qui i riferimenti alla famiglia, al luogo della radice, potrebbero rivelarsi in parte più probabili); il suo dire è quello di un incatenato, di un posseduto dal male, o dalla malattia del vivere: in definitiva, vi è in lui una sorta di “possessione creativa” che lo apparenta, se vogliamo, al Dantedella fuga dai luoghi deputati all’Inferno (palese in Dal Purgatorio). All’interno di un simile lavoro, l’irrealtà, o l’iperrealtà, è all’ordine del giorno. L’incredibile sofferenza cade come un velo sui luoghi montani, sulle case e i loro interni. Ogni oggetto è suscettibile di energia malevola, di cripticità allusiva molto convincente, nonché di maledetta fascinazione. Il rituale è geniale; la solidità delle intenzioni, granitica. A mio avviso, le due raccolte qui unite (quella che dà il titolo a tutto il volume, e l’altra, intitolata “Fratelli”, sono un unico progetto, all’interno del quale non ravviso particolari scarti di stile o di poetica. Questa fatica di Lepori mi piace definirla una storia oggettiva, di origine umana, in cui l’uomo (appunto) tenta di scarnificarsi e di uccidersi, pur di togliersi da un contesto innaturale e doloroso. E’, in definitiva, la metafora della nostra vita di poveri cristi della modernità, della parola sottratta e della speranza amputata. Speriamo che Qualunque sia il nome possa fungere da monito per noi tutti. Gianfranco Fabbri, « FuoriCasa Poesia », n.2, 2006.

Rete2, RSI « Inserto », 20 novembre 2003
Intervista a Fabio Pusterla e Stefano Raimondi (M. Rabiolo)

Il paese più straziato è la mia carne, recensione di Mattia Cavadini

Salutata come una delle poche opere prime davvero notevoli (G. Isella), come un esordio impeccabile (M. Cucchi), la raccolta di poesie Qualunque sia il nome (Casagrande, 2003) di Pierre Lepori ha come oggetto la descrizione del paesaggio straziato del corpo, che porta i segni del represso, del negato, del non-detto; un corpo ferito da « coltelli », disidratato dal « non-amore », che porta « sul fondo della gola » un nodo familiare fatto di falsificazioni e silenzi, di omertà contegnose. Un corpo che si pone come quadro clinico tangibile di una sofferenza più sottile, psicologica, taciuta per anni, troppi anni perché la carne non si ribellasse.

Il corpo si ribella sia al bene sia al male / i muscoli si allacciano e rintrecciano le gambe/ e la voce sul fondo della gola
/ (il contrarsi di due muscoli e la corda
vocale di sinistra che non vuole
tendersi / e altre parti di te che fuoriescono
/ come se avessi ammutolito troppe cose
perché il corpo non si ribelli).

Per descrivere questo paesaggio straziato Lepori si serve di una poesia musicale, fatta di secchi clangori, accensioni bibliche, impennate visive che increspano un linguaggio altrimenti piano; una prosa poetica capace di adattarsi alle tensioni del corpo, alle oscillazioni dell’anima, ai soprassalti della coscienza. L’ideale di questa lingua è la folgorazione visiva, che nasce dalla frequentazione del profondo, dove si annidano gli archetipi (il fuoco, l’acqua, le madri,…) ma anche tutta una « arenaria di ricordi« : quel « lago nero » del represso, del rimosso, quella « città sommersa » che va colta nella sua dissonanza ( « cocci dissonanti« ), nei suoi gridi stridenti, con la speranza che questo « piantare un grido esattamente al centro del gorgo » possa diventare canzone, una canzone in grado di raggiungere « le finestre del disprezzo passato« , ovvero colpire, in una sorta di battaglia dapprima privata e quindi pubblica, il fulcro di tanta angoscia e sofferenza. Ma andiamo con ordine, anche perché la raccolta di Lepori è grande soprattutto per la sua dimensione poematica: vero e proprio viaggio, indagine, ricerca, come in Edipo. D’altronde solo chi va alla ricerca delle verità profonde, scrive Lukacs nell’Anima e le forme, raggiungerà alla fine del cammino la meta non ricercata, la vita, la sua vita, se stesso.

Il viaggio inizia con la discesa nel maelstrom: l’orrore del domicilio. E’, questa, l’immersione nel silenzio del « guscio« , nella sordità della famiglia, in cui vigono le leggi dell’inerzia, dell’immobilismo (« ogni generazione è un catenaccio« ), affinché tutto resti uguale nei secoli dei secoli. I ruoli si tramandano come una condanna: i figli diventano padri, nella supina accettazione del « dovere« , nel silenzio affettivo. Ma è un « silenzio di pace incancrenito sino all’artiglio« , e contro questo silenzio si leva allora « improvviso nelle viscere un sussulto« . E’ una prima ribellione, che « rompe il guscio dell’immobile paura« , ma che consegna la voce poetica ad una solitudine di « sterpi ». Il tentativo, una volta rotto l’orrore del domicilio e riconosciuta, a furia di parole (« quante parole per avere voce sul silenzio« ), la propria diversità (« diverso dalla loro volontà« ), è quello di aggrapparsi alle cose (« le cose che continuano ad essere« ), alla natura. Ma anche qui non c’è consolazione: « troppo poca consolazione ti ha concesso quel cielo illividito« , « i campi sono sempre desolati, anche d’estate« . E allora, per un attimo, non si sa « in che direzione continuare« . « L’orizzonte è ormai vuoto« . Non c’è nessuno che chiama, nessuno che risponde. Il guscio familiare non tollera infrazioni alle leggi di sempre, non sopporta gli imbastardimenti (« figlio bastardo di parole« ). Indietro non si può tornare. Davanti c’è la realtà quotidiana, fatta di piccole cose, che va affrontata. Ecco allora che la poesia imbocca questa strada, mettendo in campo microstorie puramente denotative (Mattinale, Sera, Fine della corsa), in cui Lepori riversa una grande capacità narrativa, ma che subito abbandona, rivendicando implicitamente il valore gnoseologico della poesia: o essa serve a qualcosa, o è un’operazione estetica cui inclinare solo di rado. E ciò cui deve servire la poesia è ancora una volta la domanda di sempre « chi sono io? ». E per rispondere a questa domanda non c’è che una possibilità: mettersi a nudo, mostrare il proprio corpo, la propria carne, il paesaggio dell’anima, pur sapendo di entrare in una landa solitaria:

Ma quando il buio si fa fitto sulle cose
/ e attutito è il calore dell’istante /
non resta che andare più a fondo
/ e nessuno ti accompagna, / più a fondo
la montagna è senza nome.

Il viaggio diventa intimo: il cuore messo a nudo. Si espongono i segni che la sofferenza ha inciso sul corpo (« le prigioni del corpo », « la rigidità del collo », « l’emicrania », « cervicali« ): è una discesa nel profondo, « a capofitto« , affrontando « immagine dopo immagine » tutti i ricordi, nominandoli, senza arretrare di un passo, pur sapendo di incenerire in questo modo tutto quel « non-detto affettuoso » che caratterizzò l’esistenza nella domus: « tutto il fiorire, poi, sarebbe stato fiorire di ceneri« . E’ un percorso difficile da pronunciare (« da quel giorno un demone di parole ti assilla/ti spinge a fondo, la testa nell’acqua scura« ). E’ una discesa nell’ »angoscia stagnante« , che sottrae l’io-lirico a qualsivoglia contatto con il mondo esterno (« il calore ormai inudibile del cielo« ). Mondo, anzi, che viene descritto nel suo aspetto incontrovertibile, nella solidità di rocce, pietre, vallate che non danno scampo. E anche il cielo appare immutabile. E’ questo il punto infimo del viaggio: momento in cui all’io-lirico non si danno appigli: il mondo intero, la stessa natura, nella sua immutabile solidità, sembrano negare e vanificare il percorso rigenerativo (giacché non si dà descensus ad inferos senza rinascita) che la voce poetica sta mettendo a nudo. Tant’è vero che la prima sezione si chiude emblematicamente con l’interrogativo angosciastico: « arrivi in fondo e sei disperato come prima? »

Epperò la discesa non è stata inutile. E’ servita a far chiarezza, ad aver « coscienza del vero« . E questa consapevolezza, d’ora in avanti, non abbandona la voce poetante, che può affrontare l’angoscia con un sottile distacco, quello necessario per riconoscerne i sintomi, i segni che ciclicamente affiorano sulla pelle. Nasce così la sezione Forme d’acqua: una sorta di sintomatologia della sofferenza privata, che individua la patologia nel disequilibrio fra acqua e fuoco, la cui soluzione (la nebbia) appare però come il male peggiore: una sorta di scudo di fronte all’orrore del mondo. E allora è meglio « scendere verso il buio degli opposti » (perché il mondo è bene e male); accettare la tensione, esporsi a quella ferita attraverso cui l’universo entra in noi (« il corpo è un muro / nella cui cinta calare in silenzio« ), e il nostro essere cola verso il mondo. Per questo occorre essere la ferita e il coltello, perché solo così, attraverso l’interstizio della ferita inferta e subita, la luce può penetrare fin dentro il cuore di tenebre. E allora ecco che la ferita subita, viene inferta con « rabbia » nella seconda parte del libro (Fratelli). Rabbia per chi si pone al di qua del bene e del male: appagato, tranquillo, dentro le sue frontiere ideali e ideologiche. La rabbia assurge così a forza politica che forse può sfrangiare quelle frontiere. Può forse dare la scossa che modifichi il vero male: la falsificazione, l’indifferenza, l’omertà. Nella poesia di Lepori c’è un immenso odio e un’immensa pietà, secondo la traiettoria che si trova nella poesia di Rimbaud di cui il libro offre una versione personale: « vertigine, franamento, deriva e poi pietà« . Pietà che chiude il primo libro, in cui l’io-lirico riemerge dal fondo e guarda « con tenerezza gli oggetti » e scopre il suo corpo segnato da parole (e quindi dalla possibilità di dire) e non solo da sofferenze.

Ed è proprio questa scoperta, quella di avere un corpo « disegnato » di parole, la grande conquista gnoseologica da cui esce arricchito l’io lirico. Tanto che, in Fratelli, con uno sguardo più distaccato, una sorta di « ripresa dall’alto« , si ripercorre la traiettoria « vertigine, franamento, deriva e poi pietà« , rendendo pubblico quello che prima era apparso privato. E’ questa la parte politica (così la definisce l’autore) del libro: nel senso che in essa il dolore diventa forma di rappresentazione del mondo e della realtà, diventa lente attraverso cui guardare le cose, smascherandone il lato oscuro, il non-detto, la loro intima verità. La ferita subita consente di vedere ciò che si nasconde dietro la ferita del mondo, dietro le relazioni sociali. Ma per fare questo è stato necessario parlare, mostrare la pelle aperta e pulsante, quel lento « scivolare all’infinito sulla lama« . Solo in questo modo è stato possibile liberarsi dal « rancore » e da tutto ciò che covava nel profondo (« liberato dal di dentro« ). Non che questo consegni l’io-lirico alla pacificazione: anzi, il suo percorso continua ad essere amaro e solitario: « è ancora questa amara solitudine da sconfiggere« , « è sempre ancora deserto« . Eppure qualcosa è cambiato: il fatto di essersi messo a nudo gli ha consentito di riconoscersi in una comunità , in una coralità di fratelli (« un primo noi levato« ). E soprattutto gli ha consentito di distanziarsi da quel guscio familiare che lo condannava al silenzio e all’inesistenza. Eccoci dunque alla meta ultima del viaggio: non già la salvezza, ma la riappropriazione di se stesso, del proprio corpo. E anche questa riappropriazione non è totale, perché « cucite direttamente sulla pelle » restano le maschere del passato, i torti subiti, le ferite che i « coltelli di ieri » hanno disegnato e inciso sulla carne una volta per sempre. Insomma, una riappropriazione parziale, che non risarcisce del passato, ma che traghetta l’io-lirico « oltre la sponda », consegnandolo a se stesso, alla sua vita, fatta « d’angoscia » e di « luce« , come è la vita di tutti. Ecco, dunque, l’alta motivazione gnoseologica di questa poesia: l’aver condotto l’io lirico a se stesso, averlo inradicato nella sua diversità, nella sua assenza di domus, assumendo questa assenza e questa diversità come la sola patria poetica ed esistenziale possibile.

Mattia Cavadini« Bloc notes »
49, giugno 2004