CORPI

Immagine di copertina:
Pierre Piton dans Actéon de Philippe Saire (2018),
fotografia di scena di Philippe Weissbrodt

Recensione di Fabio Pagliaccia, Corriere del Ticino, 11 febbraio 2025.

Recensione di Sara Lonati
« Viceversa Letteratura », 16.9.2024

Dopo il cinema in Grisù (2007), il teatro in Sessualità (2011), la fotografia in Come cani (2015), la radio in Effetto notte (2019), Lepori al suo quinto romanzo prosegue nel suo topos d’elezione: la riflessione corporea ed esistenziale attraverso rinnovati linguaggi artistici e sensoriali. In questo caso, la lingua di comunicazione prescelta è la danza; il senso privilegiato è il tatto, che permette di leggere il reale. Il titolo stesso, messo in rilievo sulla copertina, rinforza la dimensione tattile di Corpi.

Con un salto, un jeté libero ed esplosivo con atterraggio in demi-plié per attutire il colpo, il corpo di Atteone buca la copertina di quest’ultimo romanzo. Il ballerino Pierre Piton fotografato da Philippe Weissbrodt incarna la metamorfosi ovidiana, da cacciatore a cervo. La transizione si traduce in un corpo duplice, tronco umano e capo selvatico, in movimento vigoroso verso il margine di apertura del libro, una direzionalità che invita alla lettura.

Come nel primo romanzo della «Trilogia dell’uomo solo», Come cani, la copertina è chiaro indizio dell’ambito artistico del protagonista e della corporalità viscerale di tutta l’opera di Lepori. In Come cani, la sequenza fotografica di Duane Michals The spirit leaves the body inscenava l’evaporazione e lo smarrimento finale del suo protagonista, il fotografo-reporter Thomas; in Corpi siamo invece di fronte alla consapevolezza manifesta e temeraria del ballerino Andrea che guizza finalmente fuori dal buio.

Il titolo di quest’ultimo romanzo a chiusura della trilogia è direttissimo. Con Corpi, Lepori volge il cardine della sua ricerca letteraria al plurale, a sottolineare l’interazione dell’uomo solo con gli altri, e potrebbe persino suggerire una metamorfica declinazione del singolo. 

Con il nome scelto per il protagonista, Andrea, tale declinazione si presta pure alla possibilità di slittamento fluido di genere, a seconda degli idiomi. Il nome dell’altro personaggio, nipote e aiuto-protagonista, è foneticamente ancestrale, Arka, e sfugge ugualmente alle classificazioni, peraltro come il nome dell’autore, Lou.

In tutti i brevi romanzi della trilogia, i protagonisti si ritrovano in una dimensione professionale di pausa forzata, più propriamente di totale sospensione coatta, volta alla ricostruzione dell’io e della percezione corporea, in quest’ultimo caso maggiormente viscerale. Per un ballerino, un professionista che non necessita di nient’altro, se non del proprio corpo esplorato e sfruttato all’ennesima potenza, la rottura del tendine d’Achille significa una fine inesorabile, ma per Andrea è inaspettatamente un inizio a seguire la vita e cosa propone, senza programmazioni. Stupisce sin da subito quest’apertura esistenziale del protagonista, sintomo di una forza resiliente incredibile e nuova per i personaggi di Lepori.

Negazioni, smarrimenti, fughe, lacerazioni interiori caratterizzavano gli uomini soli dei precedenti romanzi; conoscenza introspettiva, consapevolezza di non avere più nulla da perdere e leggerezza nella gestione del dolore definiscono Andrea:

«Conosce il loro linguaggio, ha grande dimestichezza con la geografia corporea e l’anatomia, i nomi del corpo lo affascinano da sempre: parole come “sternoclestomastoideo”, ad esempio. Quando si muove sa esattamente quali ingranaggi si azionano, come un pianista che sa a memoria la sua partitura, può suonarla a mani nude sul cofano di una macchina, come faceva Glenn Gould. Nello stesso tempo, quella consapevolezza acutissima la deve dimenticare ad ogni istante, perché altrimenti non potrebbe danzare» (p. 49).

L’idioma del corpo è fatto di gesti e di contatti che definiscono il reale: «dal gesto nasce la scrittura, dal movimento la realtà» (p. 61). Andrea conosce tutto l’alfabeto disseminato sul suo corpo: i sensori dell’epidermide gli permettono di leggere e comunicare qualsiasi cosa, in maniera universale. Il tatto è il senso più totalizzante e pervasivo distribuito su tutta la superficie corporea: ballerini e ciechi lo sanno bene (come dimostra il capitolo della visita al Muzeum) e tramite la loro superficie riescono a vedere oltre la superficie delle cose, usano un linguaggio oltre il linguaggio:

«era un ballerino professionista e provava un bisogno costante di toccare, sfiorare, capire con lo sguardo e con la pelle. Anche se la sua sessualità era piuttosto rarefatta e pulviscolare, era sensuale per temperamento e profondamente convinto dell’esistenza di un linguaggio oltre il linguaggio: di un linguaggio gentile dei corpi» (pp. 11-12).

Queste cognizioni permettono il superamento del dolore e dei traumi, senza paure o vane evasioni dagli altri e da sé stessi. La solitudine non fa paura e non è neppure un bisogno di esilio come negli altri romanzi, qui è una sfida, nata dalle stimolanti discussioni filosofiche e densamente artistiche della nipote Arka con il suo zio «simpatico (e inconcludente)» (p. 15). La sfida lanciata consiste nel vivere tre mesi senza rapporti sociali in un paese sconosciuto: la scelta ricade su una città della conservatrice Mitteleuropa, mai nominata, se non come La città senza vocali, non lontana da frontiere fluide e mutevoli nel corso della storia anche recente. A complicare la possibilità di interazioni, la lingua inaccessibile: parole slave misteriose di tanto in tanto irrompono nel testo, a immergere il lettore nelle difficoltà quotidiane di decifrazione. Unici strappi concessi alle regole del gioco: una videochiamata ogni quindici giorni dalla nipote, un pacco di letture scelte e un taccuino di appunti di corpi quotidiani, passanti quasi sfiorati, musicisti di strada, attori in erba, uccelli urbani, professionisti in carriera, pendolari colti nei loro dettagli, nella loro fisicità e prossemica, immaginando le loro esistenze. 

Il taccuino, tipograficamente in corsivo, con collage vari (un disegno, una foglia e un estratto con testo a fronte della poetessa polacca Wisława Szymborska), dà voce all’io e s’inframmezza ai capitoli. Anche l’angelo di Mehringplatz, la statua alata della Vittoria di Berlino di Quasi amore (quarta raccolta poetica di Lepori del 2018), ritorna in questi appunti in un’acme rivelatrice e liberatoria: 

«La violenza che ha distrutto l’amore non trova parole abbastanza brutali per esprimersi. Le ali dell’angelo di Mehringplatz sono crollate a terra, sbriciolandosi. La parola stupro non è ancora stata inventata. Poi d’improvviso, all’uscita di un concerto in un parco su un lago, esco dalla metro e scopro il cielo muto, sopra un silente cantiere notturno. […] Mi siedo in cima a una scalinata, a picco sul panorama di una città-cantiere. E per la prima volta, dopo anni, piango» (p. 96).

Le ferite sono divenute cicatrici e alla fine «la pioggia si è trasformata in neve» (p. 100), conferendo maggiormente un senso di pace, in questo soffice, candido, silenzioso, stato solido. Lacrime di gioia per l’acquisita consapevolezza fuoriescono nel corso delle pagine anche nella «città senza vocali», assistendo inusualmente a uno spettacolo di danza. Andrea si fa spettatore per caso e tutto il suo io si ritrova inaspettatamente racchiuso nel programmatico monologo in inglese di un ballerino:

«“Vorrei esplorare per voi il mio desiderio profondo di essere accettato e capito per quello che sono” – fin qui una banalità (si dice Andrea). “Vorrei essere forte e fiducioso. Solo ma connesso con gli altri. Vorrei trovare un posto nel mondo, senza per forza di cose dovermi piegare ai doveri sociali. Solo, fiero, fragile e luminoso” (Andrea ha le lacrime agli occhi)» (p. 62).

La mise en abyme riporta in superficie verità, bisogni, fragilità non più nascoste ma rivendicate, libertà individuali in dialettica con una società coercitiva. Si tratta di messaggi universali comunicati attraverso linguaggi primordiali come il corpo e la sua arte per eccellenza, la danza. Muoversi con armonia e conoscenza per andare oltre il dolore e affermare il proprio amore, in primis verso sé stessi, per poterlo irradiare a chiunque in grado di sentirlo.


Corpi conclut la « Trilogia dell’uomo solo » de Lou Lepori, dont c’est le cinquième essai narratif. La réflexion sur le corps à travers l’art et ses discours se poursuit et atteint son acmé avec la figure d’Andrea, danseur contraint d’interrompre sa carrière après la rupture de son tendon d’Achille. Au lieu de subir cette fin, le protagoniste relève le défi lancé par sa nièce Arka, avec la souplesse qui est propre à la danse. Vivant sans relations sociales dans un pays inconnu de l’Europe de l’Est dont il ne comprend pas la langue et dressant le portrait des passants dans un carnet, il rend compte non pas tant de la fragilité d’un homme seul que de la force d’amour d’un homme neuf, léger et profond, conscient et résilient. (Sara Lonatitrad. cg)


Lou Leporis fünfter Roman Corpibeschließt die «Trilogie des einsamen Mannes». Erneut kreist der Text um Überlegungen zur Körperlichkeit in der Kunst und ihren Ausdrucksformen und spitzt sie zu in der Figur des Tänzers Andrea, der aufgrund eines Achillessehnenrisses mit dem Tanzen aufhören muss. Statt das Ende seiner Karriere passiv zu erleiden, nimmt er mit typisch tänzerischer Souplesse die Herausforderung seiner Nichte Arka an: Ohne soziale Kontakte lebt er drei Monate lang in einem unbekannten Land Osteuropas, dessen Sprache er nicht versteht, und entwirft in seinem Notizbuch Porträts von Passanten. Dabei zeigt sich weniger die Fragilität eines auf sich gestellten Mannes als die Kraft der Liebe eines neuen Menschen mit Leichtigkeit und Tiefe, Bewusstsein und Resilienz. (Sara LonatiÜbers. rg)


Estratto (Corpi, 2024)

Prima dell’alba, un altro sogno erotico, da cui si sveglia di soprassalto, forse a causa di un colpo di vento sulle persiane. Un uomo con la barba gli sta parlando nell’orecchio, sente il calore delle sue labbra e il soffio che solletica il lobo. Non è sgradevole, l’uomo con la barba si tiene a distanza, tra i loro corpi ci sono un paio di centimetri. Pur essendo distanti, percepisce l’erezione dell’altro. Senza che possa dire quando, la mano dell’uomo si è posata proprio lì, in mezzo alle sue gambe. Non sfrega, non preme, si limita a far penetrare un calore dolce tra le fibre del cotone, la sua mano è enorme. Ha la voce di qualcuno che conosce, ma siccome bisbiglia non riesce a capire cosa sta dicendo, allora gira la testa verso di lui e incontra due occhi neri febbricitanti. Appoggia la fronte sulla sua fronte. Potrebbe baciarlo, e proprio in quel momento lui si allontana come spinto da un’improvvida folata di vento, si mette a ballare in un cerchio di luce accanto al letto. È nudo, l’aplomb perfetto, il petto ricoperto di peli neri. Esegue con grazia alcune figure larghe e lente, con le braccia e con le mani aperte. Sembra che quelle braccia non vogliano finire mai, si attorcigliano come serpenti, ricadono in basso e formano archi e girandole, diventano nastri, stoffa. La testa lucida è imperlata di sudore, quando si riavvicina ha i riccioli neri e glieli sbatte in faccia come fossero fruste, cinghie, nodi di serpi. Il volto è quello di un quadro famoso, per quanto cerchi di ricordarsene – all’interno del sogno – Andrea non ne ha che un vago ricordo ed è un ricordo brunastro e tremendamente eccitante, c’è una violenza sommessa che non vuole, che lo respinge, in quell’immagine. Cerca allora di agguantarlo per i capelli, sente distintamente strapparsi un ricciolo sotto le dita; poi la sua voce che dice: mi piace quando mi tiri i capelli. Vorrebbe togliergli i vestiti, buttagli le braccia al collo, stenderlo per terra e fare di tutto con lui. Al contempo, ne ha paura. La luce è sempre più accecante, è imbarazzante che tutto si svolga in modo così scoperto. L’uomo adesso si sta allontanando di spalle, tirandosi dietro un lunghissimo strascico, un mantello composto di pezze di velluto rosso e nero. Piove. Quando con la mano lui gli toglie le gocce da una spalla nuda, si accorge ch’è sangue. Ora non ha più paura, sente qualcuno cantare lontano, una voce di donna, acutissima, sfrega quel sangue tra le gambe e mentre sta per venire si sveglia.

I numeri fosforescenti dell’orologio indicano le cinque del mattino. Il sogno lo lascia stupito, perché è vivido e pieno di turbamento; ha l’impressione di averlo deciso, di essere il regista volontario di quella scena. A pensarci bene, l’uomo che danzava così davanti a lui aveva i tratti somatici del ballerino dell’altra sera, del ragazzo che usciva dagli stracci. Nel sogno però, nonostante l’evidente carica erotica, non aveva attributi maschili, era un solido corpo efebico, un ermafrodito danzante: spalle muscolose, con un sesso femminile tra le gambe. Andrea è sempre stato profondamente commosso dai corpi FTM o intersessuali. Trova nella loro nudità, nella loro ambivalenza rigettata per secoli tra i mostri, una certa pienezza. Forse è l’emozione del coraggio, il fascino dell’indecisione. Cerca di ricostruire mentalmente la coreografia vista a teatro, il momento in cui l’uomo (era un uomo?) ha formato un grande cerchio di stracci sul palcoscenico, una sorta di cratere colorato. Vedendolo non aveva capito, eppure adesso, nel dormiveglia, tutto gli sembra così chiaro, è come se il sogno gli spiegasse il senso di ciò che ha visto.

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