SHORT STORIES

La città vista dall’alto (Montréal)

Amava quella piazza in maniera struggente, anche se non aveva in fondo nulla di diverso da tante altre realtà metropolitane del Nord America, pareti di vetro e cemento, il grande museo e la filarmonica in mezzo a un prato di mattonelle grigio chiaro, il chiosco dei gelati, le insegne luminose che quell’estate erano state in parte spente per via del risparmio energetico. L’appartamento trovato al settimo piano era perfetto, ricoperto di vetrate occultanti: lui poteva guardare fuori per ore, nessuno lo avrebbe intravvisto lassù, dietro la superficie a specchio del grattacielo svettante. Era il suo cinema, il suo rifugio, la sua droga. Perdeva il senso del tempo, ci passava delle ore, si allontanava dal computer dimenticando le pratiche da sbrigare, le mail che affluivano a getto continuo, i messaggi dei colleghi. Guardava giù. 
Una vecchia coi suoi cento passi, che attraversava diagonalmente la piazza. Una bambina down leggermente obesa, con un cane minuscolo che sembrava una salsiccia con le gambe, tutte e due guardavano spesso in su, seguivano il volo dei gabbiani che venivano dal porto, a rubare briciole o pezzi spampanati di panino in centrocittà. Altri cani, certi col cappottino di colori improponibili. Un gruppo di adolescenti perdigiorno guizzanti come cavallette, con pantaloni larghi assurdi e qualche volta uno skeatboard sottobraccio, colorato a mano, sgargiante e ruvido. 
Poi i lavorari, gli allibratori, le merci. Le ore piccole del mattino erano le più feconde, le più cinematografiche. Furgoncini e facchini di colore, uomini tracagnotti con la barba di tre giorni e la schiena che comincia a cedere alla fatica antelucana, donne delle pulizie con grembiule azzurro indossato direttamente sopra vestiti troppo larghi per non sudare. E barboni, che facevano il giro dei cestini della piazza… per ritrovare qualche vuoto a rendere, qualche bottiglia con la promessa di venticinque centesimi di deposito, alla cassa del supermercato, sempre alle prime ore per non perderci la faccia. 
Pioveva da giorni, fitto fitto e gelido, in tutta onestà l’acqua scura rendeva il quadro ancor più bello. Più rapido però, perché la gente correva via e si riparava sotto ombrelli che a malapena resistevano alle raffiche cattive di pioggia e di vento. Lui continuava a guardare: a volte c’era erotismo, a volte leggerezza, a volte disperazione. Fin da piccolo gli avevano diagnosticato un’ipermetropia severa, per poter leggere o lavorare aveva bisogno di specifici occhiali. Da lassù, dal suo cinema privato dietro i vetri del grattacielo Dujardins, l’acquità della vista gli garantiva una sorta di visione in technicolor, nitidissima, dettagliata. Lo frenavano solo le emicranie. Come un vizio da pagare a caro prezzo, quello sguardo dall’alto stancava gli occhi fin oltre il dolore e la scontava con ore chiuso al buio nella stanza del retro. Con un po’ di attenzione, la situazione era gestibile, almeno finché l’angoscia non lo spingeva ad esagerare. Perché guardare era davvero uno psicofarmaco potente, gli levava l’ansia, lo lasciava tramortito, felice, finalmente lontano dalle oscure rimembranze che facevano della sua mente un calderone di caos e grida.
Non si aspettava certo di vederli laggiù, nitidamente, come sempre, in quella mattina di piovaschi. Erano vestiti alla qualunque, anche un po’ sciatti, con colori poco appariscenti. Il più anziano portava una sciarpa rossa, che spiccava nella poca luce del mattino. Il giovane aveva spalle larghe e viso quadrato, bello però, pieno di dolcezze inconfessate. Ogni tanto alzava una mano verso il volto del vecchio e gli carezzava le rughe intorno agli occhi, con un gesto liquido, quasi inconscio. Nella mano sinistra teneva un cartoccio da cui estraevano a turno piccoli pezzi di pane bianco, masticandoli con concentrazione. Parlavano poco, qualcosa si dicevano. Raccontavano i pochi accadimenti dei giorni dispari, questo da lassù non lo poteva sapere, lo intuiva. Che fossero padre e figlio, lo segnalavano i dettagli del corpo, le mani larghe, le gambe corte e un po’ tozze, il modo altero e singolare di tenere il collo in avanti. Leggermente più curvo, a causa degli anni, il padre. Nel loro modo di stare seduti accanto, di toccarsi per accenni, anche visti dall’alto promanavano un’energia struggente, quasi un’aura, la complicità di anni passati a cercarsi. 
Si erano alzati, dovevano andare, non ne avevano voglia e si vedeva, soprattutto il più anziano di tornare a una vita di poche cose, mentre il giovane di colpo sembrava doversi affrettare. Si guardano negli occhi, si toccano appena le mani, poi si abbracciano e restano così per un minuto, un tempo lunghissimo, stupefacente di mattina presto.
Ora che sono partiti, gli occhi che li guardavano lassù sono pieni di lacrime. Lui adesso pensava a suo padre, un uomo tutto d’un pezzo che non aveva mai mostrato attaccamento o affetto per quel figlio unico cresciuto tutto sghimbescio. L’aveva pestato da bambino, quel tanto che basta. L’aveva ridicolizzato, impietosamente, da adolescente, chiamandolo femminuccia, mezza tacca, mani di merda. L’aveva rifiutato poi con forza insidiosa da adulto, soprattutto quando sua moglie se n’era andata per un cancro fulmineo troppo presto, in pochi mesi. Nella sua rocciosa e quasi narcisistica mancanza di sentimenti da condividere, il padre era sopravvissuto a lungo, fin su oltre i novant’anni. Il figlio si era fatto vivo di rado, e ogni volta sentiva di essere di troppo. 
Poi quando infine – perché c’è una fine a tutto – il padre era finito agonizzante in un ospizio, il figlio aveva fatto il suo dovere senza tante storie, si era messo in aspettativa e si era seduto accanto a quel letto pulito, da cui emanavano però zaffate di odori corporei che mai, si diceva, avrebbe pensato di dover condividere con quell’uomo distante, cordiale con tutti e totalmente anaffettivo appena lo avvicinavi veramente.
Gli ultimi giorni erano stati tremendi. Attanagliato dai fumi della morfina, il padre si era messo a rantolare, coperto di chiazze bluastre e sempre più prossimo alla morte. Il figlio si era fatto coraggio, lo aveva accudito come se niente della loro vita passata importasse – né botte né insulti né silenzi –, aveva rimboccato le coperte, pulito la bava che increspava la bocca, chiamato le infermiere quando non sapeva più che pesci pigliare. Fuori sembrava che il mondo si fosse fermato. Le ultime parole del padre, dopo che il figlio gli aveva ravviato i capelli e maldestramente posato una carezza sulla fronte, erano state in linea con tutto il resto: non mi toccare, gli aveva detto, non ne ho bisogno. Carezza da ricevere, carezza da dare, si era detto il figlio, mio padre non mi ha mai preso tra le braccia. Era morto il giorno dopo.
Vista dall’alto, adesso la città si era svuotata. Erano passate ore e lui era ancora lì. Il mal di testa si era fatto spietato, a tal punto che prima del tramonto era stato preso da pesanti allucinazioni. Si vedeva attraversare il vetro schiantato della facciata come in un film di James Bond, al rallentatore. Alzava le braccia, con la voce di Golderake, invocava le lame rotanti. Si vedeva cadere in mezzo alla piazza, schizzando più sangue di quanto potesse contenere la carcassa di un bue, e la scena si ripeteva più e più volte. Si vedeva intubato, legato come un arrosto, in un letto d’ospedale, alle cure intense. Poi all’alba aveva dovuto chiuderli, gli occhi, e aveva visto l’universo preso nei rami di un gigantesco albero nero. Aveva capito oscuramente, luminosamente, che Tutto possiede una potenza creativa, che alcuni chiamano dio, a cui lui non credeva. Aveva sentito il pianto e il riso mischiarsi in un’esplosione di emozione incontenibile. Le galassie ondeggiavano, le stelle si allontanavano in un turbine a spirale verso il centro pulsante della galassia, una striscia di latte attraversava un cielo nero e giallo.
Poi però, alle sue spalle, la porta si era aperta. Gli occhi fosforescenti di un ragazzo giovane come uno scoiattolo lo avevano guardato, si erano fatti densi, profondi, preoccupati per lui. Lo aveva preso tra le braccia senza rumore, aveva coperto i suoi occhi doloranti con una mano calda, lo aveva steso sul letto della stanza sul retro, gli aveva tolto i vestiti.
Ora nessuno li guardava, nessuno poteva vederli, i due ragazzi erano abbracciati e nessuno dei due piangeva. Per le strade del centro, mentre la notte lasciava posto al mattino, l’uomo anziano scendeva una scaletta ripida, tenendosi stretto al corrimano. Era uscito un’ora prima, voleva leggere con calma il giornale. Poi avrebbe ritrovato suo figlio, come ogni giorno, per mezz’ora, nella grande piazza della città vista dall’alto.

Montréal (La ville en bas) – français: p. 3

Intervista inedita con Yari Bernasconi (italiano): p.4