
“PREFERISCO ESSERE RIDICOLO CHE CINICO”
Yari Bernasconi in dialogo con Lou Lepori
So bene quanto ti sia cara la componente politica della letteratura (mi verrebbe da dire del gesto letterario), soprattutto in questo periodo. E tuttavia, per essere sincero, non sono sicuro che il cuore pulsante del tuo progetto si situi (in primo luogo) nella sua componente politica. Credo ci sia dell’altro, qualcosa di più intimo e probabilmente più misterioso. Così, per la mia prima domanda, mi affido alla voce di un autore che mi sono stupito di non ritrovare nel tuo testo di presentazione, Pier Vittorio Tondelli. Ebbene, Tondelli in Camere separate scrive: « Ma perché, poi, scrivere? E soprattutto perché pubblicare? Perché rendere questo dolore. così privato e così essenziale, un piccolo oggetto limitato da buttare al macero o nella polvere? »
Non ricordavo il passaggio in questione, ma non mi sembra un caso – a parte la nostra passione comune per questo scrittore straordinario – che tu voglia partire proprio da Tondelli; che è un autore profondamente militante, nell’accezione e nei temi che m’interessano. Si tratta del Tondelli malinconico degli ultimi anni, quello che ritroviamo anche in un romanzo del suo fraterno amico Claudio Piersanti. Perché Tondelli è stato a tutti gli effetti un apripista, troppo intelligente per non percepire l’ambiguità della rotta che stava aprendo. E poi… il fatto che sia morto così giovane di AIDS l’ha reso una sorta di mito, di fondamento (non sempre ammesso) di una certa scrittura italiana contemporanea (fino a Desiati). Con Altri libertini, ma anche e soprattutto con quel capolavoro che fu Pao Pao e nel citato (già immalinconito) Camere separate, Tondelli fonda un nuovo paradigma della letteratura soggettiva, che per lui è mutuato dalla lettura degli americani (in particolare Leavitt) e dalla cultura underground e cinematografica bolognese (Jarman). Che sia una letteratura apertamente omosessuale (queer) ha la sua importanza, nell’Italia craxiana degli anni Ottanta, ma non è il “cuore pulsante” (ti rubo l’espressione) del suo lavoro; è un fatto storico, che sarà percepito da una generazione di scrittori gay, da Mancassola e B.Bianchi fino agli odierni Fiorino e Bazzi. Quella stagione narrativa post-post-moderna – e questo a Tondelli non sfuggiva – poteva veicolare istanze socialmente molto avanzate (sessualmente), ma anche modelli romanzeschi ormai scavalcati dai Novissimi o da Calvino. Col suo giovanilismo energetico (che mancava del tutto alla generazione precedente, ivi compreso Pasolini), Tondelli lanciava la moda del “generazionale”, del mémoire narrativo, dell’auto-finzione (prima ancora di Doubrovsky, Ernaux, Carrère o Eribon). Una sorta di ritorno al sentimentale, al patetico-sociologico (borghese per retaggio storico), magari lavato nella salsa trash della breve stagione cannibale, quindi con più emoglobina. Ma era pur sempre un ritorno all’ordine (narrativo), scardinato dalla generazione precedente (non solo sperimentale, pensa alla secchezza della Ginzburg!). Tondelli non era un aquoiboniste – come avrebbe detto Serge Gainsbourg – non s’interrogava sull’inutilità dello scrivere in quanto tale, ma piuttosto sullo scrivere di sé, sul sentimento privato eletto a testimone dell’epoca. Sapendo che in fin dei conti era quello (o sembrava quello) ciò che lasciava in eredità ai famosi Under 40. E allora mi permetto di auto-citarmi (a distanza di anni, spero non sia troppo narcisistico farlo) … Nel mio primo libro scrivevo “Un dolore privato è poca cosa” e “gridare dentro non è / gridare per tutti”. Già vent’anni fa mi ponevo la tremenda domanda di Tondelli: come si fa a uscire dalle secche dell’io? Sapendo che quell’io deve pur gridare, rispondere al silenzio, alle ingiunzioni sociali. Che il suo unico modo di trovare una necessità profonda è appunto di andarla a cercare nell’intimità ferita, ridicola se vogliamo, ma comunque lacerata. Hai ragione, questa domanda non è politica, ma “intima e misteriosa”, perché intimo e misterioso, lacerato, è il motivo per cui scriviamo. È un dubbio ontologico a cui non c’è risposta. O forse sì, se voglio cercare di abbozzare una risposta del tutto personale, l’unico modo per non sentirsi schiacciati dall’inutilità dello scrivere, dello scrivere partendo da sé, è di rinnovare continuamente il gesto. Cito spesso la frase bellissima di Francis Bacon: “riportare lo spettatore in vita con più violenza”, che Elisa Biagini commenta così: “Una violenza mai gratuita o rumorosa, ma necessario risveglio al racconto del vivere pieno, in tutta la sua intensità anche dolorosa”. Non so se ho risposto alla tua domanda, ma mi pare che a un certo punto, quando si scrive da un po’ di tempo, cala su tutti e tutte l’impressione di avere esaurito quella violenza, quella che chiami con più tatto necessità. E allora bisogna ritrovarla, magari spostando l’asse, cercando altrove, in questo caso – per me – nei racconti. E si sarà capito, “contro il romanzo” (mi sono sempre piaciute queste pose un po’ radicali).
Come si fa a uscire dalle secche dell’io? Be’, neppure è un caso che Tondelli risponda con un… “noi”. Un noi che è stato letto in molti modi, forse pure strumentalizzandolo, ma è un gesto significativo. Fai bene a citare il tuo Qualunque sia il nome, perché sono interrogativi che ti abitano già da allora, e addirittura anche prima (penso all’esperienza sui “Quaderni di poesia italiana contemporanea” di Marcos y Marcos). Questo ci porta abbastanza naturalmente a oggi, ai tuoi racconti e ai protagonisti dei tuoi racconti, che in fondo, nel mosaico, rappresentano bene un noi contemporaneo (frammentario, diversificato, a tratti persino paradossale, eppure indissolubilmente legato). E se guardo indietro nella tua bibliografia, un embrione di questi racconti – di questo noi – era già presente in Effetto notte, con le storie del programma radiofonico notturno. Forse anche per questo cerco di aggirare la descrizione del tuo progetto, che giustamente esplicita il “programma”: perché vorrei capire al di là dell’impalcatura teorica (e politica) da dove vengono questi racconti, questa forma. L’urgenza della forma. Da una prospettiva insomma – uso un termine che può essere impegnativo, ma tant’è – stilistica.
Torneremo in seguito sul “noi”, se mi permetti, e sulle svolte intime-biografiche che consentono di passare dal io ferito al noi traballante; non è solo per una preoccupazione politica (Tondelli), ma anche una questiona tecnica, legata al grande tema della voce, della prise de parole; per sé o, problematicamente, per il mondo. Non lo dico per sottrarmi alla tua domanda più terra a terra, ma perché si potrebbe pensare che esiste un prima e un dopo della scrittura, cioè un ontologia (una serie di posizionamenti sociali e culturali) da cui nasce il testo, l’espressione. La classica questione dei contenuti: aver qualcosa da dire, da esprimere, da raccontare e poi trovare i mezzi per farlo. Invece i due livelli sono strettamente rintrecciati e “la lingua precede sempre la scrittura”, come ricorda Derrida. Scusa l’appunto ancora una volta intellettualmente sofisticato, ma mi sembra una premessa fondamentale, per evitarci un abbaglio molto in voga, cioè l’idea di una letteratura del messaggio o, peggio, della testimonianza. Veniamo alla questione tecnica, alla genealogia del progetto, che consiste come avrai capito non in un libro solo, ma in una serie di volumi. Se ho tendenza a dire che la scrittura delle short stories è una novità del mio percorso, hai ragione a notare la presenza massiccia di questa pratica in Effetto notte, un romanzo inframmezzato dai monologhi degli ascoltatori, che telefono a una trasmissione notturna per confessare i loro mali e le loro gioie. Si potrebbe aggiungere che questo tipo di scrittura nasce prima di tutto dal teatro e dalla radio, attraverso una serie di evoluzioni quasi automatiche: la mia prima regia teatrale consisteva in un adattamento in forma di monologo del romanzo Grisù; pubblicato nel 2007, tradotto nel 2011, portato in scena nel 2016. Queste evoluzioni non sono, per fortuna, totalmente consce, sono il risultato di un’evoluzione, delle “svolte” di cui sopra, appunto. Allora: molto direttamente, i primi racconti del volume (ancora inedito) Sotto il cielo del Canada, che ne contiene 33, sono nati come una costola di Effetto Notte. Nel 2020, le Giornate Letterarie di Soletta sono state annullate, causa pandemia; gli organizzatori hanno organizzato un’edizione on line, con interviste registrate. E ci hanno chiesto di scrivere appositamente per il festival degli inediti, da presentare sulle pagine del sito. Avendo appena pubblicato il romanzo, ho deciso di ispirarmi direttamente ad esso: ho scritto sei spin-off, cioè episodi narrativi che riprendevano le vicende appena accennate dei personaggi secondari di Effetto notte (la segretaria di un’agenzia immobiliare, il fratello “scemo” del protagonista, il suo caporedattore…). E poi… potrei dire che ci ho preso gusto e ho continuato sur la lancée. Ma non è così semplice, in realtà, perché la svolta aveveva un addentellato tecnico non indifferente: è vero, in Effetto notte, ci sono dei monologhi che si configurano come mini-racconti… però gli spin-off sono stati subito pensati fuori dalla forma del monologo. La focalizzazione era chiaramente concentrata su un personaggio alla volta, ma gli spin-off abbandonavano la prima persona singolare a favore della terza e di una sintassi ispirata a una certa oralità, ma volutamente al passato (prossimo o imperfetto). Un cambiamento prettamente tecnico, compositivo, dunque, che inaspettatamente mi ha aperto un mondo. Ho scoperto varie cose: che potevo narrare la vita singola con uno sguardo esterno-interno – è un po’ un classico – e che questa nuova focale (in senso cinematografico) aveva un effetto dirompente. Mi è sembrato che, come nel celebre studiolo di Pirandello in cui si accalcavano i fantasmi dei personaggi in cerca d’autore, anche davanti alla mia mente si presentassero decine e decine di personaggi. A volte colti in un dettaglio per la strada, ispirati a uno sguardo o a una rapida visione del reale, a volte di pura invenzione. In questo c’è di nuovo un legame stretto con il teatro, ma il fatto di aver scelto un dispositivo narrativo diverso dal monologo, mi ha portato più lontano. Poi, come al solito, ho cercato di capire perché, di teorizzarci sopra – perché sono un intellettuale compulsivo, non mi basta scrivere, voglio capire, storicizzare, decostruire (sempre Derrida). Ma è vero che, un po’ magicamente, i personaggi e le situazioni sono nati da una vera e propria pulsione tecnica, dal fatto stesso di scegliere una forma, un punto di vista, uno stile. Se vogliamo di nuovo spiegarlo con le teorie letterarie, per evitare il misticismo della cosiddetta ispirazione, potremmo dire con Merleau-Ponty che chi scrive lavora sul retro dell’arazzo, intrecciando i fili e i colori, e che il disegno nasce sull’altro lato… non lo dico per esibire una citazione colta, ma per ammettere che questa nuova cascata inarrestabile di racconti non è nata da un bisogno di raccontare qualcosa di particolare, di esprimere un’individualità, né forse, dalla pulsione di raccontare il mondo. Ma al contrario, da un vero e proprio gesto tecnico. Gesto nel senso che gli dava Villém Flusser, per cui scrivere è il “geste par lequel un matériau est mis sur une surface” (e graphéin è anche l’atto di scavare, portare alla luce, formulare).
Fai bene a specificare quanto i livelli (avere qualcosa da dire da una parte, trovare il modo dall’altro) siano in realtà strettamente – e, appunto, a volte misteriosamente – intrecciati. Sarò sincero: speravo che lo facessi. La tecnica, dunque; lo stile. Non c’è da stupirsi se la rincorsa per questo nuovo slancio letterario provenga dall’esperienza teatrale e soprattutto – credo – dal tuo lavoro radiofonico: s’intuisce subito che il lavoro sulla lingua, nei tuoi racconti, è lontano da altre tue esperienze romanzesche (le prime in particolare). C’è un’immediatezza, una brevità e una sorta di leggibilità che somiglia non poco al linguaggio che utilizzi durante una corrispondenza culturale alla radio. Un procedimento in levare, suppongo, ma tenendo d’occhio… l’economia generale (essere immediatamente comprensibili in poco tempo, e riuscire a dire in quel poco tempo le informazioni più importanti). Esagero?
Mi sembra ovvio che l’evoluzione non si svolge solo all’interno della scrittura, ma anche sulle vie parallele personali e professionali. Perché alla fine questo stile – che è un intreccio come detto di “voler dire” e di “lasciar dire” – non consiste in qualcosa di esterno, ma nella ricerca di una voce, di un ritmo, di un souffle. Non dico che debba essere un automatismo (scrittura automatica), ma piuttosto che lo stile deve diventare trasparente, come i fili che tengono insieme un tessuto. Proust a proposito della Recherche dice di voler “bâtir”, e questa parola in francese vuol dire sia “costruire” che “imbastire” (per il sarto). Il regista francese Claude Régy affermava che l’arte del recitare consiste nel dare l’impressione che le parole nascano nel momento in cui sono pronunciate, che sono nuove e libere ad ogni momento – non re-citate; ma dietro quest’arte ci sono anni di training del corpo attoriale, della sua voce, e un’immensa capacità di concentrazione e di lâcher-prise. E allora, certamente, il mio lungo lavoro radiofonico conta moltissimo. In ventisette anni di corrispondenze ho imparato quello che tu dici: stringatezza, chiarezza e… ritmo, sempre lui! Faccio parte di una vecchia generazione di giornalisti radiofonici: nonostante una destrezza acquisita durante gli anni, scrivo ancora parola per parola i testi dei miei interventi al microfono. Che non sono poi brevi e piccini come si potrebbe immaginare: una diretta di dieci minuti corrisponde più o meno a cinque cartelle di testo dattiloscritto, è la misura guardacaso dei miei racconti. Quel che s’impara, col tempo, non è solo una capacità comunicativa indispensabile, ma anche e soprattutto la facoltà di affidare una parte del significato intuitivamente all’ordine delle parole e del discorso, al ritmo della frase, alle scansioni sintattiche. Se devo rendere conto di una regia operistica di Romeo Castellucci, con tutta la sua stratificazione (libretto, musica, regia, simboli, canto…) avrei bisogno di molto spazio, ma con la radio ho imparato che, se non si può dire tutto, si può affidare a un’espressione icastica, a un “modo di dire” (anche ritmico) una parte del discorso, un sottotesto. Un po’ come gli attori e le attrici, che agiscono anche a livello non verbale, nel loro modo di comunicarci testo e emozioni. Quest’evoluzione tecnica, stilistica, si accompagna poi – sia per il giornalismo sia per la scrittura – a un secondo livello di evoluzione, quello relativo alla fiducia. Con il passare degli anni, il giornalista acquisisce una certa autorevolezza e lo scrittore smette di voler dimostrare a sé e al mondo che sta facendo sul serio, che è credibile, colto intelligente raffinato. Che sa come si scrive (in realtà non lo sapremo mai, in letteratura). Rinuncia non tanto al narcisismo (che forse c’è) dell’esibizione muscolare, ma alla paura di non farcela, di non essere credibile, eccetera.
Certo questo spiegherebbe anche la presenza di quei formidabili condensatori di senso e sentimento che sono i migliori cantautori, capaci in pochi suoni di tirare fuori il “sugo del sale” (Guccini)…
…è un patrimonio che rivendico e a cui sono molto legato, credo che avrebbero diritto – perlomeno nella tradizione italiana – a far parte dei programmi scolastici, per l’estrema bellezza e forza di moltissimi loro testi (inscindibili ovviamente dalla musica e dalle qualità vocali). Per quanto ci interessa qui (cioè il racconto breve) per me sono dei veri maestri, anche solo per la varietà degli stimoli e delle soluzioni formali che possono insegnarci: dalle invettive politiche (da Io se fossi Dio di Gaber all’Avvelenata di Guccini) alle evocazioni paesaggistiche (Preghiera in gennaio di De André, San Lorenzo di De Gregori); dagli adattamenti di classici (Antologia di Spoon River, Peter Pan) ai veri e propri racconti in miniatura (Piccola storia ignobiledi Guccini; Uomini persi di Baglioni), sono una fonte continua d’ispirazione. E a livello narratologico: La classe calcistica del ’68 (De Gregori), La prima comunione (Lolli), Tutto il calcio minuto per minuto (Baglioni), Cinzia (Venditti), Tornando a casa (Capossela), Amerigo (Guccini)… sono tutti racconti, icastici, emotivi, narrativi nel senso più bello del termine. Come per la radio, vi ritrovo i due elmenti fondamentali della concisione e della voce. E in fondo: Rapidità, esattezza, molteplicità… sono tre delle Lezioni americane di Calvino.
Proprio delle Lezioni americane mi viene in mente un brano, che è cruciale per quello che stai dicendo (riguarda la rapidità): «[…] non voglio dire che la rapidità sia un valore in sé: il tempo narrativo può essere anche ritardante, o ciclico, o immobile. In ogni caso il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. In Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “lu cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o di anni». Mi sembra cruciale, dicevo, per la nozione del tempo, ovviamente, ma anche per una parola che credo significativa: incantesimo. Siamo nell’universo del magico. E quante volte, soprattutto oggi, dimentichiamo l’indissolubile rapporto fra letteratura e magia, realtà e fantasia: piani che non solo si alternano, ma si interscambiano, si sovrappongono, si nutrono a vicenda. Mentre oggi, soprattutto nella forma lunga, forse inseguendo la chimera di un nuovo Grande Romanzo Italiano, si tende a restare pedissequamente a un realismo che somiglia a un ipercorrettismo; un realismo, cioè, che dimentica come per esempio Voland e Behemoth possano rivelarsi più reali – e toccanti e memorabili e rivoluzionari – di qualunque altro personaggio. Non cito casualmente Il maestro e Margherita: ho l’impressione che la “lezione” – sembra un eufemismo – di Bulgakov sia stata raccolta solo in pochi casi, per lo più isolati; e un discorso non dissimile potremmo farlo per il cosiddetto realismo magico. Ma mi fermo: cosa ne pensi?
Hai sollevato un numero di temi sconcertante, non so se riuscirò a rispondere, e a non sbrodolare. A parte il nume tutelare di Bulgakov, che condividiamo (“i manoscritti non bruciano” è proprio la scena magica del gatto Behemoth, sulla stufetta del tugurio del maestro…), partirei dalla questione della velocità. Notando che “tempo” in francese è anche una nozione musicale (e io fin da piccolo ho studiato musica, conosco bene il solfeggio e le nozioni di fraseggio, timbro, modulazione…forse le uso scrivendo, con gli occhi chiusi a dieci dita sulla tastiera). Devo ammettere ch’è una cosa che mi ha fatto sempre soffrire, l’impressione di dovermi scusare per la mia grafomania, per la rapidità dell’esecuzione. Certo, ho un protocollo di lavoro duro, mi alzo alle quattro meno un quarto e scrivo senza smettere fino alle nove (per questo mi isolo volontariamente in città straniere). Però in quel lasso di tempo posso scrivere dalle nove alle venti pagine. Questo va contro ogni savia scuola di scrittura e contro l’idea molto romantica dello strazio e del dolore della pagina bianca. Per me scrivere ha qualcosa di frenetico, di pulsionale. Tre racconti in una sola mattina di lavoro non sono un’eccezione, ma la regola. E non parlo nemmeno di racconti pensati e macerati a lungo (anche se c’è una macerazione, un humus che si prepara nel tempo). Poi mi pento e mi dolgo, penso di dover rifare tutto…eppure con gli anni mi sono accorto che questa sorta di fondamento orgasmico della scrittura mi permette di fare molte cosa essenziali: dimenticarmi di pensare, di giudicare, di far letteratura. Scrivere col corpo, sfiatare. Scusami la volgarità, ma se un personaggio non scorreggia e rutta, resta un personaggio e non una persona (e questo è contro il self-control che ci insegna la società). Anche psicologicamente: la rapidita permette di dire cose che non oso raccontare neanche a me stesso, nonostante l’abitudine al diario. E poi sì, c’è proprio quel che dice Calvino – che, per carità, non si ottiene solo celere calami, per altre e altri non è così –, per una ragione quasi logica: la pulsione diventa pulsazione (rieccoci alla musica), il racconto si fa torrente, tracimazione, abbrivio… un’energia che trascina me e poi (forse) trascinerà chi legge. Sennò come ci spiegheremmo che opere astratte come La palude definitiva di Manganelli o La Nuit remue di Michaux si leggano appassionatamente senza per forza di cose appoggiarsi sulle strategie narratologiche classiche, quelle del plot e del twist? C’è qualcosa di magico, sì, dell’incantesimo che ci tiene ammaliati dalla notte dei tempi alla voce dell’aedo intorno al fuoco. C’è qualcosa di fisico e io questo adesso lo so, lo so da un po’, scrivo col corpo, con la sensualità, fiumasticamente. E non voglio più vergognarmi. In questo senso il romanzo ha per forza di cose un’ambizione più architettonica, è una musica neoclassica, gli è impossibile essere dodecafonico oppure seriale come John Cage (a dispetto di Joyce)… non so se questo basta a rispondere.
Non vorrei fossimo troppo teorico-tecnici, in questa conversazione. C’è un aspetto contenutistico, nella tua svolta verso i racconti, che mi sembra importante. È la presenza, la prevalenza, dei personaggi. Più importanti della trama, dell’intreccio, quasi della letteratura (mi pare sia Gombrowicz a dire che il romanzo tradice la persona…). Anni fa, intervistandoti all’uscita di Grisù (2007) citavo un’epigrafe di Natalia Ginzburg, posta all’inizio di Le voci della sera : «In questo racconto i luoghi, e i personaggi, sono immaginati. Gli uni non si trovano sulla carta geografica, gli altri non vivono, né sono vissuti, in nessuna parte del mondo. E mi dispiace dirlo, avendoli amati come fossero veri». Poi ricordavo Caro Michele (che è un romanzo fino a un certo punto, vista la sua forma rifratta), che tu citi e rileggi molto spesso. Il genere racconto – come nelle Novelle per un anno di Pirandello – è un po’ il luna park dei personaggi, il luogo in cui possono presentarsi a frotte, magari consapevolmente ridicoli, in un’infinito caleidoscopio umano…
Hai centrato un punto fondamentale, credo. L’idea che l’umanità mi interessa più della letteratura. Non per umanismo, però, ma per sentimentalismo, voglio dire: scrivo perché mi commuovo. Accetto senza troppi problemi che mi si accusi di indulgere al melodramma, il mio stesso modo di scrivere (la sintassi a sbalzelloni, la tendenza all’aggettivazione, all’ossimoro, all’anafora) mostrano una propensione per quel che gli antichi chiamavano pathos. Per quel soffio singolare (possiamo chiamarlo pneuma o conatus, seguendo Spinoza) che mi rende così facile la scrittura in versi, fin dai trempi in cui copiavo Gozzano o Virgilio al liceo (piangendo sulla sorte di Didone o della Signorina Felicita). Non credo sia solo una questione personale, di temperamento. Perché in letteratura non c’è una verità dello scrivere, ma solo una sua attualità, una sensualità; tutte e tutti siamo alle prese col mondo che ci circonda, e se scrivendo lo dimenticassimo, saremmo obbligati a riprodurre sempre gli stessi schemi, gli stessi modelli (come in certi periodi letterari, non a caso noiosi). Da parte mia, a forza di sensi di colpa ma anche di reazioni a critiche ricorrenti, oggi mi sembra di poter ammettere senza paura di essere melodrammatico (nel senso di Fassbinder, cioè crudelmente). Il protagonista del mio ultimo romanzo (Corpi, 2024) ne è un perfetto esempio: “lui diceva che aveva imparato tutto da Baglioni, non certo da Thomas Mann (che lei adorava). Lei lo accusava di sentimentalismo, addirittura di populismo. Ma sentimentalismo e sentimento non sono la stessa cosa; e il secondo si nutre di quello che trova, fosse pure Ivana Spagna o Scialpi”. È un po’ una provocazione, ma questo bisticcio (che è poi stato anche quello con a mia editrice) nasconde qualcosa di profondo. Intendiamoci: sono poco a mio agio col melodramma, se diventa un omaggio o una fatua sovrastruttura estetica (pensa ai film di Todd Hayes), perché qui siamo nel campo della citazione, del pastiche. Che, ancora una volta, è un modello d’avanguardia, quasi un ready made. Preferirò sempre Mozart, che prende il libretto del cinico Da Ponte (Così fan tutte) e lo infarcisce di buoni sentimenti, di “perdono” (come scriveva nelle sue lettere alla moglie Constance): in pieno gioco, in pieno scherzo rococò, la musica di Mozart si commuove davvero… basta ascoltare “Sereno sia il vento” (nel primo atto). Aggiungo, nel mio caso, che c’è anche un effetto generazionale: non sono solo stato formato dalle canzoni (e dai clip di MTV, bruttissimi ma narrativi) ma anche da tutta una generazione – torniamo a Tondelli! – che ascoltava The power of Love e piangeva sui film di Ivory e Almodovar (La legge del desiderio); che leggeva Leavitt e Gore Vidal e provava le sue prime emozioni erotiche con L’amante di Duras (anzi peggio: con la versione cinematografica mélo di Jean-Jacque Anneau). Le mie letture di quegli anni – liberatorie (quindi politiche) – sono appunto Tondelli, Mancassola, B. Bianchi e anche e soprattutto Stephen King, che se ne frega di fare “alta letteratura”. Non è un atteggiamento anti-snobistico, ma è pura passione, pura sensazione, puro sentimento. Per quello che vale… cioè solo perché è fedele a una percezione singolare e personale della realtà. Cito spesso la famosa frase di Deleuze e Guattari, che partendo da Kafka, affermano che ogni scrittore deve praticare la sua lingua minore, della minoranza (minorata). Se devo essere fedele a quell’ingiunzione (etica) allora voglio davvero seguire i miei personaggi nel pianto e nel riso, devo fidarmi del calore che sprigionano, anche quando sono ridicoli… ma non siamo tutti un po’ ridicoli? È una questione di umanità, non di letteratura, e per me l’umanità resta sempre al di sopra della letteratura. Non per un imperativo morale, ma perché la letteratura è contenuta dall’umanità, non il contrario. È solo a questo patto che può parlarci senza finzione, senza cedere alle sirene dell’estetica (che è puramente concettuale e circostanziale, dice Kant). Allora sì, i personaggi, le piccole virtù (Ginzburg) e le viltà (Parise) sono il “sugo del sale”. Anche a costo di risultare sbavato, eccessivo. La via maestra dei racconti – con la folla dei personaggi scollacciati che si presenta una volta di più nello studiolo del buon Pirandello o del dottor Cechov – porta anche verso un poli- (addirittura “anti-“) stilismo, verso un umanesimo integrale (per usare l’espressione di Maritain, non a caso molto influente sull’opera di uno dei miei scrittori preferiti, Georges Bernanos). Non so se ho risposto alla tua domanda, che è calorosa e complessa, ma su questo tema è come se dovessi deporre le armi (dell’intellettuale), scrivere e basta, con quel poco di umanità che ho intorno e dentro (se possibile). Preferisco essere ridicolo, infantile, che cinico, ed è una scelta ovviamente del tutto personale.
Vorrei chiudere con un paradosso: stai per pubblicare un romanzo – che conclude la Trilogia dell’uomo solo (Come cani, Effetto notte, Corpi: 2015-19-24)… Certo puoi rispondermi che l’ultimo romanzo è una sorta di chiusa, di resa dei conti, però so che l’hai scritto a Montréal, stimolato dalle stesse esigenze emotive da cui è nato il primo volume di racconti e la volontà di “abbandonare” (un po’ melodrammaticamente) il romanzo. Non è contraddittorio?
Corpi: rilavorandoci, tra l’altro in un brutale conflitto con la mia editrice, ho scoperto ch’era un romanzo pulviscolare, nel senso che a questa parola danno Deleuze e le teorie queer. Fatto non di linee ma di granuli, come una televisione alla fine dei programmi, se mi passi l’immagine banale. Si nota poco perché il romanzo in questione è tradizionale nella forma… eppure i suoi temi – cioè quelli di una sessualità che non si pone più in un continuum, su uno spettro maschile-femminile (omo-etero) ma come una percezione diffusa, indefinibile e sensuale – sono totalmente queer, come il personaggio di Andrea. È pur vero che questo testo si situa davvero allo snodo di qualcosa: ero già pronto per andare altrove ma mi mancavano i mezzi. E non solo perché rifiuto la visione del mondo totalizzante del romanzo, portata dalla forma mentisdella borghesia industriale (patriarcale, eterocentrica e quant’altro), ma anche perché io stesso non sono uno scrittore d’avanguardia, non posso sfondare il muro della narrazione o del realismo (cosa tra l’altro, già avvenuta e in parte “rientrata” storicamente). Voglio ancora raccontare, raccontarmi delle storie… da qualche anno ero in un vicolo cieco senza saperlo. La prova è nel fallimento dei tentativi (citerò tre mie romanzi inediti): l’alambiccata struttura del Pesce clown, la parte mistica delle Città viste dell’alto, il maldestro tentativo autofinzionale di Réparer les morts (su mio nonno). Per temperamento, per amore (della vita), se vado in quella direzione mi ritrovo sempre incastrato in dispositivi decostruttivi sbilanciati, volonterosi. Devo ammettere che il passaggio – ed è tanto meglio – s’è fatto un po’ caso: mi hanno chiesto di scrivere dei racconti, ci ho preso gusto, sono partito per il Canada ed avevo due mesi per proseguire l’esperienza ho dato libero corso alla mia grafomania. Senza quasi che lo volessi, senza cercarlo, i racconti sono diventati il modo per rispondere all’impossibilità (mia) del romanzo. Ho scoperto che lì potevo, sapevo sperimentare, protetto dalla consapevolezza che non era un puro atto in perdita, cioè per essere onesti che io stesso come lettore non mi perdevo nel testo, ma anzi godevo delle sue piccole infrazioni: racconti senza finale o brutalmente interrotti, storie a rovescio, dettagli trasformati in narrazione, realismo magico (una novità per me), pure atmosfere, ecc. Insomma, quasi un processo naturale, rassicurante in fondo, perché arrivato a cinquantacinque anni potrei metter su pancia e ripetere sempre le stesse misure, lo stesso passo. Anzi no, il passo, il fiato, è sempre lo stesso, cioè quello della ricerca, ma non per forza della dispersione (che ha caratterizzato nel bene e nel male le avanguardie). Tutto questo può apparire ambizioso, pomposo (cioè i discorsi di chi si prende molto sul serio e parla di sé in termini di storia letteraria), ma avrai capito che non si tratta di letteratura, ma anche e soprattutto della mia stessa pulsione di scrittura: scrivo quello che vorrei leggere, racconto quel che vorrei mi raccontassero, oso parlare di quel che non trovo nei libri, eccetera. Tutto qui.
Intervista realizzata a Losanna, 16-28 gennaio 2024