SHORTS

Nuvole quasi messicane, rumorio di camion, rimorchi, merci. E la grande croce a cattedrale del Mall. Strano che nessun vigile si sia fatto avanti, sembra davvero che non l’abbiano notato. In altri casi simili, prima passavano, poi ti notavano, poi chiedevano e infine con insistenza o cortesia facevano in modo che tu ti sentissi osservato, malvenuto. Eri pregato di levare le tende. Invece questa volta era venuta solo a più riprese una donna delle pulizie obesa, tutta bardata in una tenuta azzurrina che le fasciava i fianchi, una mama antillese o haitiana, che snocciolava un bizzarro flusso di lamenti e risate, una lingua che gli era sembrata improbabile, a cui si era abituato. 

Sei mesi (2022-27)

Il progetto Sei mesi prevede sei volumi di trenta racconti ognuno: lontanamente ispirato, si parva licet, alle Novelle per un anno di Pirandello (opera cardine per le sue implicazioni sociali e d’invenzione linguistico-narrativa), s’iscrive nella tradizione – oggi un po’ negletta – della novellistica italiana novecentesca, con particolare passione per le opere di Goffredo Parise (Sillabario), Natalia Ginzburg e Claudio Piersanti (L’amore degli adulti).

L’obiettivo è di comporre racconti rapidi nello svolgimento (3-5 pagine), stilisticamente liberi (e a volte sperimentali), centrati sul realismo ma con sforamenti surreali e comici; e una dose voluta di melodramma. L’altro grande modello è americano: Fitzgerald, Chever, Leavitt, Cameron. Dovrebbe poterne uscire una sorta di cartografia sentimentale della nostra epoca, dei suoi amori, dei suoi generi fluidi e delle sue disillusioni, in una prospettiva chiaramente queer. Tre volumi sono già conclusi: Sotto il cielo del Canada, Altri amori e Le ambigue bontà. Il progetto ha ricevuto finora il sostegno del Premio Lilly Ronchetti 2024 , con una borsa di scrittura e un soggiorno nell’Atelier parigino dell’A*dS (Associazione degli autori e delle autrici in Svizzera). Alcune novelle sono state anticipate su riviste e giornali (cf. infra) e in linea (Giornate letterarie di Soletta, 2022).


Il en émane une sorte de magie à laquelle il est difficile de se soustraire bien que les phrases se suivent très librement, glissent avec calme et grâce, semblables à une lointaine voix de la mémoire où résonnent encore comme en faible écho les sentiments. Les récits de Lou Lepori finissent par créer un tout nonchalamment esquissé, ouvert et changeant, où prennent forme – pour aussitôt se dissiper – de furtives émotions, d’intenses atmosphères, des moments, des images, des histoires brièvement ébauchées ou mi-secrètes.

Barbara Villiger Eilig, Extrait de la motivation du Jury (Prix Lilly Ronchetti, 2023)

La città vista dall’alto (Montréal)

Amava quella piazza in maniera struggente, anche se non aveva in fondo nulla di diverso da tante altre realtà metropolitane del Nord America, pareti di vetro e cemento, il grande museo e la filarmonica in mezzo a un prato di mattonelle grigio chiaro, il chiosco dei gelati, le insegne luminose che quell’estate erano state in parte spente per via del risparmio energetico. L’appartamento trovato al settimo piano era perfetto, ricoperto di vetrate occultanti: lui poteva guardare fuori per ore, nessuno lo avrebbe intravvisto lassù, dietro la superficie a specchio del grattacielo svettante. Era il suo cinema, il suo rifugio, la sua droga. Perdeva il senso del tempo, ci passava delle ore, si allontanava dal computer dimenticando le pratiche da sbrigare, le mail che affluivano a getto continuo, i messaggi dei colleghi. Guardava giù. 
Una vecchia coi suoi cento passi, che attraversava diagonalmente la piazza. Una bambina down leggermente obesa, con un cane minuscolo che sembrava una salsiccia con le gambe, tutte e due guardavano spesso in su, seguivano il volo dei gabbiani che venivano dal porto, a rubare briciole o pezzi spampanati di panino in centrocittà. Altri cani, certi col cappottino di colori improponibili. Un gruppo di adolescenti perdigiorno guizzanti come cavallette, con pantaloni larghi assurdi e qualche volta uno skeatboard sottobraccio, colorato a mano, sgargiante e ruvido. 
Poi i lavorari, gli allibratori, le merci. Le ore piccole del mattino erano le più feconde, le più cinematografiche. Furgoncini e facchini di colore, uomini tracagnotti con la barba di tre giorni e la schiena che comincia a cedere alla fatica antelucana, donne delle pulizie con grembiule azzurro indossato direttamente sopra vestiti troppo larghi per non sudare. E barboni, che facevano il giro dei cestini della piazza… per ritrovare qualche vuoto a rendere, qualche bottiglia con la promessa di venticinque centesimi di deposito, alla cassa del supermercato, sempre alle prime ore per non perderci la faccia. 
Pioveva da giorni, fitto fitto e gelido, in tutta onestà l’acqua scura rendeva il quadro ancor più bello. Più rapido però, perché la gente correva via e si riparava sotto ombrelli che a malapena resistevano alle raffiche cattive di pioggia e di vento. Lui continuava a guardare: a volte c’era erotismo, a volte leggerezza, a volte disperazione. Fin da piccolo gli avevano diagnosticato un’ipermetropia severa, per poter leggere o lavorare aveva bisogno di specifici occhiali. Da lassù, dal suo cinema privato dietro i vetri del grattacielo Dujardins, l’acquità della vista gli garantiva una sorta di visione in technicolor, nitidissima, dettagliata. Lo frenavano solo le emicranie. Come un vizio da pagare a caro prezzo, quello sguardo dall’alto stancava gli occhi fin oltre il dolore e la scontava con ore chiuso al buio nella stanza del retro. Con un po’ di attenzione, la situazione era gestibile, almeno finché l’angoscia non lo spingeva ad esagerare. Perché guardare era davvero uno psicofarmaco potente, gli levava l’ansia, lo lasciava tramortito, felice, finalmente lontano dalle oscure rimembranze che facevano della sua mente un calderone di caos e grida.
Non si aspettava certo di vederli laggiù, nitidamente, come sempre, in quella mattina di piovaschi. Erano vestiti alla qualunque, anche un po’ sciatti, con colori poco appariscenti. Il più anziano portava una sciarpa rossa, che spiccava nella poca luce del mattino. Il giovane aveva spalle larghe e viso quadrato, bello però, pieno di dolcezze inconfessate. Ogni tanto alzava una mano verso il volto del vecchio e gli carezzava le rughe intorno agli occhi, con un gesto liquido, quasi inconscio. Nella mano sinistra teneva un cartoccio da cui estraevano a turno piccoli pezzi di pane bianco, masticandoli con concentrazione. Parlavano poco, qualcosa si dicevano. Raccontavano i pochi accadimenti dei giorni dispari, questo da lassù non lo poteva sapere, lo intuiva. Che fossero padre e figlio, lo segnalavano i dettagli del corpo, le mani larghe, le gambe corte e un po’ tozze, il modo altero e singolare di tenere il collo in avanti. Leggermente più curvo, a causa degli anni, il padre. Nel loro modo di stare seduti accanto, di toccarsi per accenni, anche visti dall’alto promanavano un’energia struggente, quasi un’aura, la complicità di anni passati a cercarsi. 
Si erano alzati, dovevano andare, non ne avevano voglia e si vedeva, soprattutto il più anziano di tornare a una vita di poche cose, mentre il giovane di colpo sembrava doversi affrettare. Si guardano negli occhi, si toccano appena le mani, poi si abbracciano e restano così per un minuto, un tempo lunghissimo, stupefacente di mattina presto.
Ora che sono partiti, gli occhi che li guardavano lassù sono pieni di lacrime. Lui adesso pensava a suo padre, un uomo tutto d’un pezzo che non aveva mai mostrato attaccamento o affetto per quel figlio unico cresciuto tutto sghimbescio. L’aveva pestato da bambino, quel tanto che basta. L’aveva ridicolizzato, impietosamente, da adolescente, chiamandolo femminuccia, mezza tacca, mani di merda. L’aveva rifiutato poi con forza insidiosa da adulto, soprattutto quando sua moglie se n’era andata per un cancro fulmineo troppo presto, in pochi mesi. Nella sua rocciosa e quasi narcisistica mancanza di sentimenti da condividere, il padre era sopravvissuto a lungo, fin su oltre i novant’anni. Il figlio si era fatto vivo di rado, e ogni volta sentiva di essere di troppo. 
Poi quando infine – perché c’è una fine a tutto – il padre era finito agonizzante in un ospizio, il figlio aveva fatto il suo dovere senza tante storie, si era messo in aspettativa e si era seduto accanto a quel letto pulito, da cui emanavano però zaffate di odori corporei che mai, si diceva, avrebbe pensato di dover condividere con quell’uomo distante, cordiale con tutti e totalmente anaffettivo appena lo avvicinavi veramente.
Gli ultimi giorni erano stati tremendi. Attanagliato dai fumi della morfina, il padre si era messo a rantolare, coperto di chiazze bluastre e sempre più prossimo alla morte. Il figlio si era fatto coraggio, lo aveva accudito come se niente della loro vita passata importasse – né botte né insulti né silenzi –, aveva rimboccato le coperte, pulito la bava che increspava la bocca, chiamato le infermiere quando non sapeva più che pesci pigliare. Fuori sembrava che il mondo si fosse fermato. Le ultime parole del padre, dopo che il figlio gli aveva ravviato i capelli e maldestramente posato una carezza sulla fronte, erano state in linea con tutto il resto: non mi toccare, gli aveva detto, non ne ho bisogno. Carezza da ricevere, carezza da dare, si era detto il figlio, mio padre non mi ha mai preso tra le braccia. Era morto il giorno dopo.
Vista dall’alto, adesso la città si era svuotata. Erano passate ore e lui era ancora lì. Il mal di testa si era fatto spietato, a tal punto che prima del tramonto era stato preso da pesanti allucinazioni. Si vedeva attraversare il vetro schiantato della facciata come in un film di James Bond, al rallentatore. Alzava le braccia, con la voce di Golderake, invocava le lame rotanti. Si vedeva cadere in mezzo alla piazza, schizzando più sangue di quanto potesse contenere la carcassa di un bue, e la scena si ripeteva più e più volte. Si vedeva intubato, legato come un arrosto, in un letto d’ospedale, alle cure intense. Poi all’alba aveva dovuto chiuderli, gli occhi, e aveva visto l’universo preso nei rami di un gigantesco albero nero. Aveva capito oscuramente, luminosamente, che Tutto possiede una potenza creativa, che alcuni chiamano dio, a cui lui non credeva. Aveva sentito il pianto e il riso mischiarsi in un’esplosione di emozione incontenibile. Le galassie ondeggiavano, le stelle si allontanavano in un turbine a spirale verso il centro pulsante della galassia, una striscia di latte attraversava un cielo nero e giallo.
Poi però, alle sue spalle, la porta si era aperta. Gli occhi fosforescenti di un ragazzo giovane come uno scoiattolo lo avevano guardato, si erano fatti densi, profondi, preoccupati per lui. Lo aveva preso tra le braccia senza rumore, aveva coperto i suoi occhi doloranti con una mano calda, lo aveva steso sul letto della stanza sul retro, gli aveva tolto i vestiti.
Ora nessuno li guardava, nessuno poteva vederli, i due ragazzi erano abbracciati e nessuno dei due piangeva. Per le strade del centro, mentre la notte lasciava posto al mattino, l’uomo anziano scendeva una scaletta ripida, tenendosi stretto al corrimano. Era uscito un’ora prima, voleva leggere con calma il giornale. Poi avrebbe ritrovato suo figlio, come ogni giorno, per mezz’ora, nella grande piazza della città vista dall’alto.

Montréal (La ville en bas)

Il aimait cette place d’un amour déchirant. Elle n’avait rien de vraiment différent, par rapport à d’autres places, dans les villes d’Amérique du Nord. Béton et verre des façades, le grand musée et la philharmonie sur un parvis des carreaux gris, la boutique des glaces, les grandes pubs en LED, éteintes cet été-là pour endiguer la crise énergétique. Il avait trouvé cet appartement au septième étage, idéal et clean. Il n’y avait pas de murs, mais des fenêtres symétriques, dont les vitres fumées ne laissaient rien entrevoir de l’extérieur. Lui, il pouvait regarder pendant des heures, personne n’aurait pu deviner sa silhouette, là-haut, derrière la surface en miroir du gratte-ciel pointé vers la nuit. C’était son cinéma, son refuge, sa drogue. Il en perdait la conscience du temps, il restait là des heures, s’éloignant de l’ordinateur où les tâches et les corvées s’accumulaient. Les mails y affluaient sans répit, les messages des collègues sans réponse. Lui, il regardait en bas.
Une vieille dame, ses cent pas en diagonale à travers la grande place. Une enfant trisomique en surpoids, qui tenait en laisse un chien minuscule, une saucisse sur pattes ; l’animal et la fillette pointaient les yeux vers le ciel, suivaient le vol des mouettes qui désertaient le vieux port pour venir voler des croûtes de pain et des bouts de sandwichs rancis au Centre-Ville. D’autres chiens, parfois lardé d’un petit manteau aux motifs écossais. Des ados insouciants, qui vrillaient sur leurs skates avec un bruit de bois qui casse, leurs pantalons trop larges ou trop courts, leurs t-shirts criards, jaunes, rouges, rêches.
Et les travailleurs, les bookmakers, les marchandises. Les heures du matin sont les plus riches, les plus cinétiques. Fourgons, livreurs métis, hommes râblés à la barbe de trois jours, le dos en miettes sous la fatigue d’avant l’aube. L’armée des femmes de ménage, flottant dans leurs blouses bleutées, transpirantes. Les clochards de vingt ans, obstinés dans leur tournée des poubelles pour ramasser une cannette jetée, une bouteille qui promet 25 sous de consigne, qu’ils iront chercher à la caisse du supermarché, en visant les heures creuses pour ne pas se ramasser la honte.
Bientôt l’hiver. Une pluie drue et glaciale depuis des jours. L’eau tombe en toute banalité sur la ville noire ; le tableau double en profondeur. Pourtant, les mouvements s’accélèrent. Les passants s’empressent vers les portes automatiques des immeubles, s’abritent mal sous des parapluies branlants, qui se cambrent dans les rafales du vent.
Il regardait. Il y avait du désir, parfois. Parfois de l’élégance, ou alors un éclair de désespoir. Depuis son enfance, on lui avait diagnostiqué une hypermétropie sévère : pour le travail ou le soleil, des lunettes spéciales protégeaient sa rétine. De là-haut, son cinéma privé derrière les vitres du building gagnait en netteté, son handicap visuel lui garantissait une vision en technicolor ; chaque détail se découpait, parfait, dans l’ensemble. Sa seule limite étaient les migraines. Comme une faute chère payée, son regard surplombant fatiguait ses yeux jusqu’à la douleur. Ensuite, il devait se terrer dans la chambre à l’arrière de l’appartement, la contemplation trop prolongée de la ville avait un prix.
Mais avec un minimum d’attention, la situation devenait gérable. C’était l’angoisse qui le poussait à dépasser la limite. Regarder était à la fois un remède et un poison puissant. Il larguait la peur, se livrait au monde, et en revenait assommé, heureux, libéré des forces obscures, des souvenirs qui, autrefois, avaient fait de son esprit un chaudron de chaos et de chagrins.
Ces deux-là, blottis sur le muret, il ne les avait pas prévus. L’image était nette, comme à chaque fois que la pluie laissait la place au vent. Ils étaient habillés sans façon, peut-être même négligés. Leurs habits étaient en noir et blanc. Le plus vieux portait une grande écharpe sombre, qui se détachait sur le gris de son pull-over. Le jeune avait des épaules larges, un visage carré et beau, traversé de patience. Il levait son regard sur le vieil homme et par moment le caressait, touchait les rides autour de ses yeux d’un geste liquide, irréfléchi. Dans sa main droite, il tenait un cornet en papier, d’où les deux hommes extrayaient à tour de rôle des bouchées de pain blanc. Ils mâchaient concentrés. Ils parlaient peu, mais se disaient des choses. Par bribes, opiniâtres, ils se racontaient les menus détails des journées ordinaires. Depuis là-haut, lui, il ne pouvait en savoir plus, il imaginait. 
Quelques détails physiques signalaient qu’il s’agissait d’un père et d’un fils. Les mains allongées, les jambes courtes et maladroites, leur façon singulière de dresser la tête avec fébrilité. Le dos de l’aîné était moins droit. De leurs gestes, de leur façon discrète de se toucher par moments, il sentait, même depuis là-haut et avec une puissance déconcertante, la complicité des années passées à se chercher. L’aura de leur entente. 
Ils s’étaient levés, il fallait y aller. La séparation était légère et pénible. Le père rentrait dans sa vie de peu, alors que le jeune homme semblait soudain pressé. Ils se regardaient dans les yeux, s’effleuraient des mains, puis c’était l’accolade, longue, prodigieuse dans l’air matinal.
Maintenant, ils ne sont plus là et les yeux qui regardent sont remplis de larmes. Là-haut, lui pense à son père, un homme comme il se doit, sévère, dur, qui n’avait jamais montré de son vivant le moindre attachement, même pas une affection mesurée à l’égard de ce fils unique, vite grandi, de guingois. Il l’avait battu, enfant, comme bien d’autres l’avaient été, mais assez pour cabosser son amour-propre. Plus tard, il l’avait ouvertement ridiculisé, sans pitié. L’adolescent malingre avait reçu les appellations de tafiole, de petit sirop, de mains de merde. Une fois adulte, le père l’avait refusé, renié, surtout depuis que sa femme les avait quittés d’un cancer foudroyant, trop tôt. Dans son narcissisme de molosse, le patriarche avait continué sa vie sans sentiments, avait touché sans honte la crête des nonante ans. Le fils ne l’appelait jamais, quand il s’y résolvait, il sentait de toute manière qu’il était de trop. 
Mais il y a une fin à tout – même à une vie sans amour – et le père avait agonisé dans un hospice, alors que le fils rattrapait son devoir sans broncher ; il avait demandé un congé sans solde, s’était assis à côté du lit blanc d’où se dégageaient des odeurs corporelles que jamais – se disait-il – il n’avait partagé avec cet homme. Cet homme claquemuré dans sa suffisance, qui affichait pourtant des airs bonhommes avec le tout-venant, pour mieux cacher sa sécheresse intérieure.
Ses derniers jours avaient été terrifiants. Broyé par la morphine, le père n’était plus qu’un râle, il se couvrait de taches bleues à mesure que la mort l’embrassait. Le fils avait puisé dans son courage, l’avait soigné comme il l’aurait fait avec un homme bon, attentionné ; comme si les coups et les brimades n’avaient jamais existé. Il l’avait bordé, il avait essuyé sa bave, appelé les infirmières quand il ne savait plus quoi faire. Dehors, le monde était aboli. Les derniers mots du père, lors que le fils lui avait passé une main dans les cheveux jaunis, en osant même une caresse à l’adret de sa joue, avaient confirmé le mal-fondé de toute approche intime : me touche pas – avait-il grimacé – j’ai pas besoin. Aucune caresse à donner, aucune à recevoir. Le fils avait dit au père : Tu ne m’as jamais pris dans tes bras
Depuis là-haut, maintenant, la ville s’était vidée. Les heures avaient filé, lui, il était toujours là. Sa tête vrombissait, la douleur l’avait enserrée au moment même où le soleil filait se coucher. Si fort qu’elle avait provoqué des hallucinations. Il s’était vu brisant la vitre et se jetant dans le vide, au ralenti comme dans un film de James Bond. Levant ses bras, avec la voix de Goldorake, il avait invoqué les lames rotatives. Il s’écrabouillait au milieu de la place, en déversant des hectolitres de sang sur le parvis, comme un bœuf monumental. La scène se répétait, encore et encore. Puis il se voyait intubé, ficelé comme un rôti dans un lit d’hôpital, aux soins intensifs. À l’aube, ses paupières s’étaient refermées, il avait vu l’univers pris dans les branches d’un arbre majestueux, noir brillant. Obscurément, il avait su, dans un éclat de lucidité, que l’univers possède une puissance créative, cette force que certains appellent dieu, sans nom pour lui. Il avait entendu le rire et les pleurs se fondre, exploser, déborder. Les galaxies ondoyaient, les étoiles s’éloignaient dans un tourbillon, une spirale menait au centre térébrant de la Voie lactée, coulée de semence fichée dans un ciel jaune.
Puis, derrière lui, la porte avait été déverrouillée. Les yeux phosphorescents d’un jeune homme à la beauté d’écureuil l’avaient regardé, en se densifiant d’émotion et d’inquiétude. L’ange l’avait pris dans ses bras sans un bruit, avait recouvert ses yeux douloureux de sa main chaude, l’avait étendu sur le lit dans la chambre à l’arrière, l’avait déshabillé. 
Personne ne les regardait, maintenant. Personne ne pouvait les voir, enlacés dans le grand lit, ils ne pleuraient pas.
Dans les rues de la ville, la nuit émargeait dans le matin doux. L’homme âgé sortait de chez lui, descendait une ruelle pentue, en serrant très fort sa canne. Parti bien trop tôt, il voulait lire tranquillement son journal, avant de retrouver son fils, comme chaque jour. Une petite demi-heure, dans la grande place vue d’en haut.

Marie-France

Era a tutti gli effetti una delusione, anche se non voleva ammetterlo, aveva sempre fatto fatica ad accettare la realtà, dopo aver sognato, almanaccato, inventato destini a cui in fin dei conti non aveva mai avuto accesso. Aveva un senso spiccato dell’immaginazione, lo diceva anche Martha, la sua psicologa, sempre pronta a sostenerla e a renderle meno amara la pillola. Le pillole, e tante.  Le delusioni, ah sì, ne conosceva odore e sapore, ma si lasciava sempre distrarre da quella maledetta fantasia, romanticheria. E poi paf, la realtà faceva irruzione e impiegava giorni e giorni a rimettere insieme i cocci del reale. Si abbuffava di vitello tonnato, il suo piatto preferito; a volte versava una lacrima, aiutandosi con canzoni a tutto volume dalla radio, e poi ci metteva una pietra sopra. Pietra tombale della sua vita di zitella.  Questa volta, poi, ci era andata dentro di brutto, gli era bastata quella voce così calda, così amichevole, al telefono: due chiamate, dieci minuti al massimo, prima e dopo avergli spedito i dossier per gli appartamenti da affittare in città. E già se l’era visto arrivare con un mazzo di fiori. No, non così, non una cosa esagerata e kitsch, eppure la sua fantasia galoppava lo stesso. Si era vista la scena – un film perfetto con una musica perfetta – di lui che arriva a ritirare le chiavi, e la scintilla che schiocca al primo sguardo. Tecnicamente, il suo ragionamento immaginifico non faceva una piega: quell’uomo, solo senz’altro, aveva affittato un appartamento grande e bello, per un prezzo non irrisorio, un po’ a nord, nel quartiere italiano pieno di ristorantini e locali trendy. Quindi avrebbe avuto tempo, dopo quel primo sguardo ammaliatore… si fa per dire. Dalla voce, lo aveva immaginato maturo ma seducente, perfetto per lei che non era più di primo pelo. Elegante, brizzolato, calmo e pieno di attenzioni. Si era comportato – al telefono – con gentilezza squisita. Era raro; in genere gli uomini soli che chiamavano l’agenzia per trovare una casa d’affitto erano sbrigativi, economi, andavano dritti allo scopo. Il più delle volte bastava loro un monolocale con balcone, se possibile esposto a sud.  Ma lui no – Alessandro si chiamava –, lui gli era subito sembrato di pasta diversa, pasta di bignè, cioè colto e amabile, un tipo un po’ all’antica. E ovviamente, nel suo sogno ad occhi aperti, totally charming. Allora quando si era vista arrivare davanti quell’ometto basso e obeso, con un ciuffetto mal pettinato di radi capelli sul cranio liscio e rovinato dal sole, aveva spalancato la bocca senza osare guardarlo; e internamente era scoppiata una tempesta di “cretina” di “solita scema”, di zimbella di se stessa. Questa volta non aveva pianto, stretta al gatto nero dal muso affusolato, che la consolava sempre di carezze non bastanti. Forse era iniziato già il tempo del cinismo… era stata talmente scottata dalla vita, che a poco a poco si era insinuato in lei il disincanto. Sognava sempre, se la raccontava, però poi quando Cenerentola andava in frantumi, si abbuffava e basta, il che non era particolarmente indicato per aumentare in lei l’autostima, ma almeno superava la crisi. Magari con due o tre birre per poi dormire sodo, la prima notte essendo sempre la peggiore. Non che l’ometto la disgustasse, anzi anche dal vivo le era sembrato d’una cortesia triste che prometteva gentilezza e tatto. Però lei era fatta così, sogni romantici a iosa e nessuna voglia di scendere a patti con il principe azzurro che si meritava. O tutto o niente, fin da bambina, era stata questa la sua dannazione. E lo diceva anche a Martha, lo ripeteva. Non poteva tapparsi il naso, con gli uomini brutti e grassi proprio non ci si vedeva. E questo Alessandro era brutto e grasso, c’era poco da discutere, tristissimo negli occhi e nel portamento, non ci poteva fare niente, era più forte di lei. Dopo aver chiuso l’agenzia, aveva preso la metro fino a Verdun, non era tornata subito a casa. La giornata di marzo era umida e tiepida, era scesa fino alla riva del fiume. Tutto le sembrava più triste, adesso, probabilmente era sempre stato triste, quest’angolo di città poco dopo l’inverno, con quel giardinetto d’erba usta e i giochi per bambini sgangherati e sporchi. Non aveva più la forza di camminare, si era semplicemente seduta su uno di quei blocchi di granito grezzo che bordeggiano il corso del Saint-Laurent. Si sentiva un’idiota, a starsene lì senza un motivo apparente, a guardare al di là del fiume i palazzoni dell’Île des Soeurs. Grigi, spogli, addirittura arrugginiti: il tempo aveva fatto riaffiorare le armature rossastre del cemento armato. Un gruppetto di anatre passava cicalando, dietro le sue spalle il frusciare delle bici. Anche lei, un tempo, si era sentita avventurosa e piena di vita, a sbucciarsi le ginocchia nei giochi da ragazzi, nell’adolescenza cittadina senza troppi crucci. Il ricordo di sua sorella la attraversò come un’onda benigna. Era morta così giovane, lei invece era sempre lì. Sola e infelice. O forse no, in vita e basta. Felice o infelice contava poco, ormai. A casa, l’aspettava una sorpresa non proprio agréable. Il tappeto del salotto era cosparso di piume, il gatto doveva aver acchiappato un passerotto e se l’era sgranocchiato in sua assenza. Una vita da gatto, si disse mentre puliva quello scempio, forse era quello che adesso sognava. Poi si buttò sul vitello tonnato.

Caroline

Chissà perché stava raccontando tutte quelle corbellerie, non era sua abitudine mentire. Cioè, un po’ sì, le piaceva darsi delle arie. E poi, poi… non stava inventando stava ricamando, come si dice… la trama della sua vita era pur sempre quella, lavorava in una casa editrice, era una splendida divorziata quarantenne, suo figlio era partito per il college a New York, grazie ai soldi del babbo, bello stronzo. Un po’ le spiaceva… l’allegria contagiosa di Miguel, quando era in casa con lei, le evitava di pensare che a parte il lavoro – la passione, stava dicendo la passione e in questo non fingeva! – la sua vita si era svuotata. Niente di grave, niente di definitivo, ma forse adesso avrebbe dovuto darsi una mossa, per non trovarsi vecchia e sola. La semplice idea le faceva accapponare la pelle. Allora perché non indorare un po’ la pillola, con quest’uomo charmant, proprio di quelli che piacciono a lei, di quelli che non danno nell’occhio (anzi era decisamente poco avvenente), ma che quando li conosci sono un mare fresco di sorprese. Faceva la civetta? Oh Dio, no, non era certo il suo genere, però da qualche ora s’industriava a fare l’interessante, a rendere meno monotona l’immagine di sé. Perché di sé aveva un’immagine tediosa. Quando si guardava allo specchio: occhialini, naso all’insù, caschetto d’un castano né bello né brutto, si trovava una donna qualunque. Forse per questo era necessario un briciolo di mitomania. La casa editrice, quella c’era, ma lei era solo l’addetta stampa, non certo la direttrice, non ne sarebbe stata capace. Probabilmente avrebbe sbranato quegli autori che si davano arie da filosofi, mentre lei che doveva presenziare a saloni e fiere, che doveva difendere i loro libri assillando giornalisti e redazioni distratte, conosceva l’altro lato della medaglia. Pubblicare un libro, oramai, non garantiva più a nessuno di far parte dell’élite. Di libri ce n’erano troppi, lo diceva anche la sua capa, l’editrice, quella vera. Il mondo andava in una direzione diversa. O forse no? Parlandone con quell’uomo, nelle sette ore del volo transatlantico, il lavoro in casa editrice sembrava brillante, addirittura seducente. Un’addetta culturale, era. Lui invece, da anni impiegato alla radio… evidentemente esagerava anche lui, quando le raccontava la sua passione folle per le notti – perché aveva una trasmissione notturna, da mezzanotte alle tre – esagerava ma gli brillavano gli occhi. Chissà se anche a lei brillavano gli occhi di lampi sinceri, di vera passione, mentre millantava il suo ruolo di direttrice editoriale. Quell’uomo gli piaceva, non parecchio ma un po’. E questo era un bel problema. Perché se lui gli chiedeva un recapito, un numero di telefono (come sperava in cuor suo), poi come la metteva con le bugie che aveva raccontato durante il viaggio? Forse era un sabotaggio interiore, quello che stava mettendo in atto (era ormai esperta in auto-analisi psicologiche spericolate, non a caso loro pubblicavano libri di auto-stima e spiritualità soft, e spesso li leggeva); un modo per stroncare sul nascere una simpatia che poteva trasformarsi in altro, Magari si sentiva in colpa perché, una volta recapitato Miguel al college, lei si dava alla pazza gioia, alla bella vita. Vita di donna divorziata che cerca avventure, questa poi. Perché no, perché no avrebbe detto sua madre, lei che di avventure ne aveva avute fino alla fine, che una volta ricoverata in casa per anziani aveva presentato a tutta la famiglia un conte ungherese con cui aveva deciso di occupare camere comunicanti e poi magari di sposarlo (ma non aveva fatto in tempo)? Chissà poi perché doveva impedirsi di pensarsi ancora bella, seducente, appetibile. Quel giornalista sembrava darle ragione, la lusingava chiedendole dettagli sempre più insistenti sul suo lavoro, sulle sue passioni, addirittura – era indiscreto! – sulla sua vita di famiglia. Come fare, adesso, a scoprire le carte. Mica poteva, dopo due ore di conversazione, dirgli: mi spiace, sa, quello che le ho raccontato non sono che panzane. Quisquilie e pinzellacchere, come diceva Totò. E poi? Forse ci avrebbero fatto su una risata, forse anche lui avrebbe ammesso (perché se lo sentiva, l’intuito in questo caso non mentiva) che aveva esagerato le rose e i fiori della sua carriera radiofonica al fulmicotone. Adesso dormiva, ronficchiava addirittura, una tenerezza. Lei no, lei alternava sensi di colpa, tristezza per Miguel lontano, e una vergogna azzurrognola che le provocava un leggero mal di testa. Aveva mentito, anche solo sui dettagli, ma sono i dettagli che fanno la differenza, scivolando sul piano inclinato della vulnerabilità. Avrebbe voluto sprofondare, schizzar fuori dal seggiolino, atterrare in mezzo al male con un paracadute d’emergenza. Lui si stava svegliando, sbadigliando rumorosamente, e all’improvviso – era già tutto previsto! – le aveva chiesto il numero di telefono, un recapito, non si sa mai. Caroline sorride dentro e fuori, si dice che una soluzione la troverà, per quelle sciocche minime menzogne. Perché quell’uomo è davvero niente male.

Bruno

Müsocc, la Bagìna, Affori, Mombello… nomi come lampi di luce, evocativi di una topografia un po’ magica… posti in cui avrebbe potuto, ombre in cui si sarebbe celato. Brera, no, a quel quartiere lì non ci voleva pensare. Poi la cartina che aveva ereditato dal fratello grande era un po’ tutta a buchi e a solchi, stava insieme con lo sputo, qua e là il nome delle vie risultava illeggibile. Bruno l’amava proprio per quello, perché la distesa verdolina solcata da arterie bianche e gialle era immobile e astratta. Quel coacervo di quadrilateri (di suo, preferiva la parola ircocervo, che aveva trovato su un atlante) ritagliava Milano in spicchi tutti uguali, tutti sognati. Era un territorio tremendamente suo, animalescamente bramato. Anche se non c’era mai stato. Ci era nato, sì, ma chi si ricorda. Conosceva a memoria quartiere per quartiere, i monumenti e gli ospedali, le chiese e i viali, il Castello e gli anfratti. Li immaginava come ad esserci adesso. Bastava il nome ad aprirgli mondi, territori in cui accampare la sua fantasia bislacca. Bruno aveva paura del treno, di viaggiare solo non se ne parlava. Non osava domandare ad Alessandro, né al terribile padre coi baffi troppo scuri, di accompagnarlo un giorno o l’altro in quella distesa di colori chiari, tra quei palazzi di cui pure conosceva il nome. Via Sesia, via Petrella, via Marco D’Agrate: non ci voleva molto a sentirne l’odore, a camminare con la pioggia lombarda sul viso. Lui era così, pieno d’immagini, Bruno. S’impediva solo il nome doloroso di Brera, perché non era scemo, lo sapeva anche lui che c’era la famosa scuola d’arte, in quel quartiere. Lui voleva fare l’artista. Sapeva che… punto e basta. Ma già, troppo tardi, troppo tonto, chi lo sa. Ci aveva solo sperato senza sapere come uscirne. Scappare più volte di casa, per poi vagare tra i campi come un allocco, non aveva semplificato le cose. Mentre Ale studiava a diventare bravo, Bruno ripeteva i piccoli cerchi concentrici intorno a quel nucleo di vento, l’impossibile sogno di partire. L’avrebbe fatta anche lui, una vita come quel poeta che aveva letto in un libro con la copertina rossa: le bianche rocce le mute fonti dei venti, l’immobilità dei firmamenti, e i gonfi rivi che vanno piangenti. L’aveva imparata a memoria. Enti… enti…enti, quelle rime lo commovevano fino alle lacrime, anche se non era sicuro di capire il senso. E quando gli sembrava d’impazzire, sui cardini duri delle giornate tutte uguali, si rifugiava laggiù, tra le vie di Milano della cartina sbrindellata. Chissà se c’era tutto con la testa? Lo guardavano male, a volte, in fondo che importanza aveva. Se di sera, nascosto sotto le assi della terrazza, in un pertugio in cui non lo si poteva scovare, fin da bambino viveva un mondo in technicolor, un orizzonte tutto suo in cui cantavano le sirene. Ale, però, era sempre stato gentile con lui. Un po’ distante, indaffarato ma si sa, lui non era certo un perdigiorno, un buono a nulla come quel fratello di coccio. Pronto a spezzarsi e a rifugiarsi al buio, a scappare al minimo assalto della vita. Così gli anni erano passati, la cartina era sempre più lisa, i sogni sempre più spenti. Anche per via delle medicine. Nemmeno il ricordo di Michel, a forza di ronzargli in testa, gli sembrava più vero. Lo aveva amato, poi era sparito, e con lui l’infanzia e l’innocenza. Quel qualcosa di sguaiato e dolce non tornava più nei sogni ad occhi aperti. Non che fosse rassegnato, la sua semplicità era troppo cristallina per poter accettare l’inevitabile. A poco a poco, la nebbia era salita nella sua vita. Non era più così importante, niente era più così importante. Oggi Bruno vive in un appartamento protetto, lui dice tollerato; ogni terza domenica del mese, Alessandro viene a trovarlo con Caroline: sono gentili, portano cioccolata e lo rassicurano. Ma non sono scemo del tutto, si dice Bruno nei momenti in cui non sogna o non piange, la mia è quella che si dice una vita sprecata.

PREFERISCO ESSERE RIDICOLO CHE CINICO
Yari Bernasconi in dialogo con Lou Lepori

So bene quanto ti sia cara la componente politica della letteratura (mi verrebbe da dire del gesto letterario), soprattutto in questo periodo. Non lo dico solo per la citazione di Annie Ernaux, ma per quello che ripeti esplicitamente: « Abbiamo bisogno di racconti che rendano giustizia al tessuto cangiante della contemporaneità affettiva », « una raccolta di racconti sull’amore è ancora oggi e ancor più necessaria », « qual è l’urgenza di questo lavoro sul racconto? Certamente quella di iniziare a repertoriare, a percorrere senza moralismo (né militantismo), le nuove forme dell’amore ». E tuttavia, per essere sincero, non sono sicuro che il cuore pulsante del tuo progetto si situi (in primo luogo) nella sua componente politica. Credo ci sia dell’altro, qualcosa di più intimo e probabilmente più misterioso. Nei tre passaggi che ho citato utilizzi tre concetti cruciali per chiunque scriva: avere bisognonecessitàurgenza. Così, sulla scia di questi tre termini, per la mia prima domanda mi affido alla voce di un autore che mi sono stupito di non ritrovare nel tuo testo di presentazione, Pier Vittorio Tondelli, e penso in particolare ad Altri libertini. Ebbene, Tondelli in Camere separate scrive: « Ma perché, poi, scrivere? E soprattutto perché pubblicare? Perché rendere questo dolore. così privato e così essenziale, un piccolo oggetto limitato da buttare al macero o nella polvere? ». Si può rispondere politicamente, certo; ma se ti chiedessi di andare oltre?

Non ricordavo il passaggio in questione, ma non mi sembra un caso – a parte la nostra passione comune per questo scrittore straordinario – che tu voglia partire proprio da Tondelli; che è un autore profondamente militante, nell’accezione e nei temi che m’interessano. Si tratta del Tondelli malinconico degli ultimi anni, quello che ritroviamo anche in un romanzo del suo fraterno amico Claudio Piersanti. Perché Tondelli è stato a tutti gli effetti un apripista, troppo intelligente per non percepire l’ambiguità della rotta che stava aprendo. E poi… il fatto che sia morto così giovane di AIDS l’ha reso una sorta di mito, di fondamento (non sempre ammesso) di una certa scrittura italiana contemporanea (fino a Desiati). Con Altri libertini, ma anche e soprattutto con quel capolavoro che fu Pao Pao e nel citato (già immalinconito) Camere separate, Tondelli fonda un nuovo paradigma della letteratura soggettiva, che per lui è mutuato dalla lettura degli americani (in particolare Leavitt) e dalla cultura underground e cinematografica bolognese (Jarman). Che sia una letteratura apertamente omosessuale (queer) ha la sua importanza, nell’Italia craxiana degli anni Ottanta, ma non è il “cuore pulsante” (ti rubo l’espressione) del suo lavoro; è un fatto storico, che sarà percepito da una generazione di scrittori gay, da Mancassola e B.Bianchi fino agli odierni Fiorino e Bazzi. Quella stagione narrativa post-post-moderna – e questo a Tondelli non sfuggiva – poteva veicolare istanze socialmente molto avanzate (sessualmente), ma anche modelli romanzeschi ormai scavalcati dai Novissimi o da Calvino. Col suo giovanilismo energetico (che mancava del tutto alla generazione precedente, ivi compreso Pasolini), Tondelli lanciava la moda del “generazionale”, del mémoire narrativo, dell’auto-finzione (prima ancora di Doubrovsky, Ernaux, Carrère o Eribon). Una sorta di ritorno al sentimentale, al patetico-sociologico (borghese per retaggio storico), magari lavato nella salsa trash della breve stagione cannibale, quindi con più emoglobina. Ma era pur sempre un ritorno all’ordine (narrativo), scardinato dalla generazione precedente (non solo sperimentale, pensa alla secchezza della Ginzburg!). Tondelli non era un aquoiboniste – come avrebbe detto Serge Gainsbourg – non s’interrogava sull’inutilità dello scrivere in quanto tale, ma piuttosto sullo scrivere di sé, sul sentimento privato eletto a testimone dell’epoca. Sapendo che in fin dei conti era quello (o sembrava quello) ciò che lasciava in eredità ai famosi Under 40. E allora mi permetto di autocitarmi (non lo farei mai in un altro contesto, ma in questo caso il nostro dialogo serve a consolidare un dossier e un progetto artistico) … Nel mio primo libro scrivevo “Un dolore privato è poca cosa” e “gridare dentro non è / gridare per tutti”. Già vent’anni fa mi ponevo la tremenda domanda di Tondelli: come si fa a uscire dalle secche dell’io? Sapendo che quell’io deve pur gridare, rispondere al silenzio, alle ingiunzioni sociali. Che il suo unico modo di trovare una necessità profonda è appunto di andarla a cercare nell’intimità ferita, ridicola se vogliamo, ma comunque lacerata. Hai ragione, questa domanda non è politica, ma “intima e misteriosa”, perché intimo e misterioso, lacerato, è il motivo per cui scriviamo. È un dubbio ontologico a cui non c’è risposta. O forse sì, se voglio cercare di abbozzare una risposta del tutto personale, l’unico modo per non sentirsi schiacciati dall’inutilità dello scrivere, dello scrivere partendo da sé, è di rinnovare continuamente il gesto. Cito spesso la frase bellissima di Francis Bacon: “riportare lo spettatore in vita con più violenza”, che Elisa Biagini commenta così: “Una violenza mai gratuita o rumorosa, ma necessario risveglio al racconto del vivere pieno, in tutta la sua intensità anche dolorosa”. Non so se ho risposto alla tua domanda, ma mi pare che a un certo punto, quando si scrive da un po’ di tempo, cala su tutti e tutte l’impressione di avere esaurito quella violenza, quella che chiami con più tatto necessità. E allora bisogna ritrovarla, magari spostando l’asse, cercando altrove, in questo caso – per me – nei racconti. E si sarà capito, “contro il romanzo” (mi sono sempre piaciute queste pose un po’ radicali).

Come si fa a uscire dalle secche dell’io? Be’, neppure è un caso che Tondelli risponda con un… “noi”. Un noi che è stato letto in molti modi, forse pure strumentalizzandolo, ma è un gesto significativo. Fai bene a citare il tuo Qualunque sia il nome, perché sono interrogativi che ti abitano già da allora, e addirittura anche prima (penso all’esperienza sui “Quaderni di poesia italiana contemporanea” di Marcos y Marcos). Questo ci porta abbastanza naturalmente a oggi, ai tuoi racconti e ai protagonisti dei tuoi racconti, che in fondo, nel mosaico, rappresentano bene un noi contemporaneo (frammentario, diversificato, a tratti persino paradossale, eppure indissolubilmente legato). E se guardo indietro nella tua bibliografia, un embrione di questi racconti – di questo noi – era già presente in Effetto notte, con le storie del programma radiofonico notturno. Forse anche per questo cerco di aggirare la descrizione del tuo progetto, che giustamente esplicita il “programma”: perché vorrei capire al di là dell’impalcatura teorica (e politica) da dove vengono questi racconti, questa forma. L’urgenza della forma. Da una prospettiva insomma – uso un termine che può essere impegnativo, ma tant’è – stilistica.

 Torneremo in seguito sul “noi”, se mi permetti, e sulle svolte intime-biografiche che consentono di passare dal io ferito al noi traballante; non è solo per una preoccupazione politica (Tondelli), ma anche una questiona tecnica, legata al grande tema della voce, della prise de parole; per sé o, problematicamente, per il mondo. Non lo dico per sottrarmi alla tua domanda più terra a terra, ma perché si potrebbe pensare che esiste un prima e un dopo della scrittura, cioè un ontologia (una serie di posizionamenti sociali e culturali) da cui nasce il testo, l’espressione. La classica questione dei contenuti: aver qualcosa da dire, da esprimere, da raccontare e poi trovare i mezzi per farlo. Invece i due livelli sono strettamente rintrecciati e “la lingua precede sempre la scrittura”, come ricorda Derrida. Scusa l’appunto ancora una volta intellettualmente sofisticato, ma mi sembra una premessa fondamentale, per evitarci un abbaglio molto in voga, cioè l’idea di una letteratura del messaggio o, peggio, della testimonianza. Veniamo alla questione tecnica, alla genealogia del progetto, che consiste come avrai capito non in un libro solo, ma in una serie di volumi. Se ho tendenza a dire che la scrittura delle short stories è una novità del mio percorso, hai ragione a notare la presenza massiccia di questa pratica in Effetto notte, un romanzo inframmezzato dai monologhi degli ascoltatori, che telefono a una trasmissione notturna per confessare i loro mali e le loro gioie. Si potrebbe aggiungere che questo tipo di scrittura nasce prima di tutto dal teatro e dalla radio, attraverso una serie di evoluzioni quasi automatiche: la mia prima regia teatrale consisteva in un adattamento in forma di monologo del romanzo Grisù; pubblicato nel 2007, tradotto nel 2011, portato in scena nel 2016. Queste evoluzioni non sono, per fortuna, totalmente consce, sono il risultato di un’evoluzione, delle “svolte” di cui sopra, appunto. Allora: molto direttamente, i primi racconti del volume (ancora inedito) Sotto il cielo del Canada, che ne contiene 33, sono nati come una costola di Effetto Notte. Nel 2020, le Giornate Letterarie di Soletta sono state annullate, causa pandemia; gli organizzatori hanno organizzato un’edizione on line, con interviste registrate. E ci hanno chiesto di scrivere appositamente per il festival degli inediti, da presentare sulle pagine del sito. Avendo appena pubblicato il romanzo, ho deciso di ispirarmi direttamente ad esso: ho scritto sei spin-off, cioè episodi narrativi che riprendevano le vicende appena accennate dei personaggi secondari di Effetto notte (la segretaria di un’agenzia immobiliare, il fratello “scemo” del protagonista, il suo caporedattore…). E poi… potrei dire che ci ho preso gusto e ho continuato sur la lancée. Ma non è così semplice, in realtà, perché la svolta aveveva un addentellato tecnico non indifferente: è vero, in Effetto notte, ci sono dei monologhi che si configurano come mini-racconti… però gli spin-off sono stati subito pensati fuori dalla forma del monologo. La focalizzazione era chiaramente concentrata su un personaggio alla volta, ma gli spin-off abbandonavano la prima persona singolare a favore della terza e di una sintassi ispirata a una certa oralità, ma volutamente al passato (prossimo o imperfetto). Un cambiamento prettamente tecnico, compositivo, dunque, che inaspettatamente mi ha aperto un mondo. Ho scoperto varie cose: che potevo narrare la vita singola con uno sguardo esterno-interno – è un po’ un classico – e che questa nuova focale (in senso cinematografico) aveva un effetto dirompente. Mi è sembrato che, come nel celebre studiolo di Pirandello in cui si accalcavano i fantasmi dei personaggi in cerca d’autore, anche davanti alla mia mente si presentassero decine e decine di personaggi. A volte colti in un dettaglio per la strada, ispirati a uno sguardo o a una rapida visione del reale, a volte di pura invenzione. In questo c’è di nuovo un legame stretto con il teatro, ma il fatto di aver scelto un dispositivo narrativo diverso dal monologo, mi ha portato più lontano. Poi, come al solito, ho cercato di capire perché, di teorizzarci sopra – perché sono un intellettuale compulsivo, non mi basta scrivere, voglio capire, storicizzare, decostruire (sempre Derrida). Ma è vero che, un po’ magicamente, i personaggi e le situazioni sono nati da una vera e propria pulsione tecnica, dal fatto stesso di scegliere una forma, un punto di vista, uno stile. Se vogliamo di nuovo spiegarlo con le teorie letterarie, per evitare il misticismo della cosiddetta ispirazione, potremmo dire con Merleau-Ponty che chi scrive lavora sul retro dell’arazzo, intrecciando i fili e i colori, e che il disegno nasce sull’altro lato… non lo dico per esibire una citazione colta, ma per ammettere che questa nuova cascata inarrestabile di racconti non è nata da un bisogno di raccontare qualcosa di particolare, di esprimere un’individualità, né forse, dalla pulsione di raccontare il mondo. Ma al contrario, da un vero e proprio gesto tecnico. Gesto nel senso che gli dava Villém Flusser, per cui scrivere è il “geste par lequel un matériau est mis sur une surface” (e graphéin è anche l’atto di scavare, portare alla luce, formulare).

Fai bene a specificare quanto i livelli (avere qualcosa da dire da una parte, trovare il modo dall’altro) siano in realtà strettamente – e, appunto, a volte misteriosamente – intrecciati. Sarò sincero: speravo che lo facessi. La tecnica, dunque; lo stile. Non c’è da stupirsi se la rincorsa per questo nuovo slancio letterario provenga dall’esperienza teatrale e soprattutto – credo – dal tuo lavoro radiofonico: s’intuisce subito che il lavoro sulla lingua, nei tuoi racconti, è lontano da altre tue esperienze romanzesche (le prime in particolare). C’è un’immediatezza, una brevità e una sorta di leggibilità che somiglia non poco al linguaggio che utilizzi durante una corrispondenza culturale alla radio. Un procedimento in levare, suppongo, ma tenendo d’occhio… l’economia generale (essere immediatamente comprensibili in poco tempo, e riuscire a dire in quel poco tempo le informazioni più importanti). Esagero? Certo questo spiegherebbe anche la presenza di quei formidabili condensatori di senso e sentimento che sono i migliori cantautori, capaci in pochi suoni di tirare fuori il “sugo del sale” (Guccini).

Mi sembra ovvio che l’evoluzione non si svolge solo all’interno della scrittura, ma anche sulle vie parallele personali e professionali. Perché alla fine questo stile – che è un intreccio come detto di “voler dire” e di “lasciar dire” – non consiste in qualcosa di esterno, ma nella ricerca di una voce, di un ritmo, di un souffle. Non dico che debba essere un automatismo (scrittura automatica), ma piuttosto che lo stile deve diventare trasparente, come i fili che tengono insieme un tessuto. Proust a proposito della Recherche dice di voler “bâtir”, e questa parola in francese vuol dire sia “costruire” che “imbastire” (per il sarto). Il regista francese Claude Régy affermava che l’arte del recitare consiste nel dare l’impressione che le parole nascano nel momento in cui sono pronunciate, che sono nuove e libere ad ogni momento – non re-citate; ma dietro quest’arte ci sono anni di training del corpo attoriale, della sua voce, e un’immensa capacità di concentrazione e di lâcher-prise. E allora, certamente, il mio lungo lavoro radiofonico conta moltissimo. In ventisette anni di corrispondenze ho imparato quello che tu dici: stringatezza, chiarezza e… ritmo, sempre lui! Faccio parte di una vecchia generazione di giornalisti radiofonici: nonostante una destrezza acquisita durante gli anni, scrivo ancora parola per parola i testi dei miei interventi al microfono. Che non sono poi brevi e piccini come si potrebbe immaginare: una diretta di dieci minuti corrisponde più o meno a cinque cartelle di testo dattiloscritto, è la misura guardacaso dei miei racconti. Quel che s’impara, col tempo, non è solo una capacità comunicativa indispensabile, ma anche e soprattutto la facoltà di affidare una parte del significato intuitivamente all’ordine delle parole e del discorso, al ritmo della frase, alle scansioni sintattiche. Se devo rendere conto di una regia operistica di Romeo Castellucci, con tutta la sua stratificazione (libretto, musica, regia, simboli, canto…) avrei bisogno di molto spazio, ma con la radio ho imparato che, se non si può dire tutto, si può affidare a un’espressione icastica, a un “modo di dire” (anche ritmico) una parte del discorso, un sottotesto. Un po’ come gli attori e le attrici, che agiscono anche a livello non verbale, nel loro modo di comunicarci testo e emozioni. Quest’evoluzione tecnica, stilistica, si accompagna poi – sia per il giornalismo sia per la scrittura – a un secondo livello di evoluzione, quello relativo alla fiducia. Con il passare degli anni, il giornalista acquisisce una certa autorevolezza e lo scrittore smette di voler dimostrare a sé e al mondo che sta facendo sul serio, che è credibile, colto intelligente raffinato. Che sa come si scrive (in realtà non lo sapremo mai, in letteratura). Rinuncia non tanto al narcisismo (che forse c’è) dell’esibizione muscolare, ma alla paura di non farcela, di non essere credibile, eccetera. Quanto ai cantautori, è un patrimonio che rivendico e a cui sono molto legato, credo che avrebbero diritto – perlomeno nella tradizione italiana – a far parte dei programmi scolastici, per l’estrema bellezza e forza di moltissimi loro testi (inscindibili ovviamente dalla musica e dalle qualità vocali). Per quanto ci interessa qui (cioè il racconto breve) per me sono dei veri maestri, anche solo per la varietà degli stimoli e delle soluzioni formali che possono insegnarci: dalle invettive politiche (da Io se fossi Dio di Gaber all’Avvelenata di Guccini) alle evocazioni paesaggistiche (Preghiera in gennaio di De André, San Lorenzo di De Gregori); dagli adattamenti di classici (Antologia di Spoon RiverPeter Pan) ai veri e propri racconti in miniatura (Piccola storia ignobiledi Guccini; Uomini persi di Baglioni), sono una fonte continua d’ispirazione. E a livello narratologico: La classe calcistica del ’68 (De Gregori), La prima comunione (Lolli), Tutto il calcio minuto per minuto (Baglioni), Cinzia (Venditti), Tornando a casa (Capossela), Amerigo (Guccini)… sono tutti racconti, icastici, emotivi, narrativi nel senso più bello del termine. Come per la radio, vi ritrovo i due elmenti fondamentali della concisione e della voce. E in fondo: Rapiditàesattezzamolteplicità… sono tre delle Lezioni americane di Calvino.

Proprio delle Lezioni americane mi viene in mente un brano, che forse è cruciale per quello che stai dicendo (riguarda la rapidità): «[…] non voglio dire che la rapidità sia un valore in sé: il tempo narrativo può essere anche ritardante, o ciclico, o immobile. In ogni caso il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. In Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “lu cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o di anni». Mi sembra cruciale, dicevo, per la nozione del tempo, ovviamente, ma anche per una parola che credo significativa: incantesimo. Siamo nell’universo del magico. E quante volte, soprattutto oggi, dimentichiamo l’indissolubile rapporto fra letteratura e magia, realtà e fantasia: piani che non solo si alternano, ma si interscambiano, si sovrappongono, si nutrono a vicenda. Mentre oggi, soprattutto nella forma lunga, forse inseguendo la chimera di un nuovo Grande Romanzo Italiano, si tende a restare pedissequamente a un realismo che somiglia a un ipercorrettismo; un realismo, cioè, che dimentica come per esempio Voland e Behemoth possano rivelarsi più reali – e toccanti e memorabili e rivoluzionari – di qualunque altro personaggio. Non cito casualmente Il maestro e Margherita: ho l’impressione che la “lezione” – sembra un eufemismo – di Bulgakov sia stata raccolta solo in pochi casi, per lo più isolati; e un discorso non dissimile potremmo farlo per il cosiddetto realismo magico. Ma mi fermo: cosa ne pensi?

Hai sollevato un numero di temi sconcertante, non so se riuscirò a rispondere, e a non sbrodolare. A parte il nume tutelare di Bulgakov, che condividiamo (“i manoscritti non bruciano” è proprio la scena magica del gatto Behemoth, sulla stufetta del tugurio del maestro…), partirei dalla questione della velocità. Notando che “tempo” in francese è anche una nozione musicale (e io fin da piccolo ho studiato musica, conosco bene il solfeggio e le nozioni di fraseggio, timbro, modulazione…forse le uso scrivendo, con gli occhi chiusi a dieci dita sulla tastiera). Devo ammettere ch’è una cosa che mi ha fatto sempre soffrire, l’impressione di dovermi scusare per la mia grafomania, per la rapidità dell’esecuzione. Certo, ho un protocollo di lavoro duro, mi alzo alle quattro meno un quarto e scrivo senza smettere fino alle nove (per questo mi isolo volontariamente in città straniere). Però in quel lasso di tempo posso scrivere dalle nove alle venti pagine. Questo va contro ogni savia scuola di scrittura e contro l’idea molto romantica dello strazio e del dolore della pagina bianca. Per me scrivere ha qualcosa di frenetico, di pulsionale. Tre racconti in una sola mattina di lavoro non sono un’eccezione, ma la regola. E non parlo nemmeno di racconti pensati e macerati a lungo (anche se c’è una macerazione, un humus che si prepara nel tempo). Poi mi pento e mi dolgo, penso di dover rifare tutto…eppure con gli anni mi sono accorto che questa sorta di fondamento orgasmico della scrittura mi permette di fare molte cosa essenziali: dimenticarmi di pensare, di giudicare, di far letteratura. Scrivere col corpo, sfiatare. Scusami la volgarità, ma se un personaggio non scorreggia e rutta, resta un personaggio e non una persona (e questo è contro il self-control che ci insegna la società). Anche psicologicamente: la rapidita permette di dire cose che non oso raccontare neanche a me stesso, nonostante l’abitudine al diario. E poi sì, c’è proprio quel che dice Calvino – che, per carità, non si ottiene solo celere calami, per altre e altri non è così –, per una ragione quasi logica: la pulsione diventa pulsazione (rieccoci alla musica), il racconto si fa torrente, tracimazione, abbrivio… un’energia che trascina me e poi (forse) trascinerà chi legge. Sennò come ci spiegheremmo che opere astratte come La palude definitiva di Manganelli o La Nuit remue di Michaux si leggano appassionatamente senza per forza di cose appoggiarsi sulle strategie narratologiche classiche, quelle del plot e del twist? C’è qualcosa di magico, sì, dell’incantesimo che ci tiene ammaliati dalla notte dei tempi alla voce dell’aedo intorno al fuoco. C’è qualcosa di fisico e io questo adesso lo so, lo so da un po’, scrivo col corpo, con la sensualità, fiumasticamente. E non voglio più vergognarmi. In questo senso il romanzo ha per forza di cose un’ambizione più architettonica, è una musica neoclassica, gli è impossibile essere dodecafonico oppure seriale come John Cage (a dispetto di Joyce)… non so se questo basta a rispondere.

Non vorrei fossimo troppo teorico-tecnici, in questa conversazione. C’è un aspetto contenutistico, nella tua svolta verso i racconti, che mi sembra importante. È la presenza, la prevalenza, dei personaggi. Più importanti della trama, dell’intreccio, quasi della letteratura (mi pare sia Gombrowicz a dire che il romanzo tradice la persona…). Anni fa, intervistandoti all’uscita di Grisù (2007) citavo un’epigrafe di Natalia Ginzburg, posta all’inizio di Le voci della sera : «In questo racconto i luoghi, e i personaggi, sono immaginati. Gli uni non si trovano sulla carta geografica, gli altri non vivono, né sono vissuti, in nessuna parte del mondo. E mi dispiace dirlo, avendoli amati come fossero veri». Poi ricordavo Caro Michele (che è un romanzo fino a un certo punto, vista la sua forma rifratta), che tu citi e rileggi molto spesso. Il genere racconto – come nelle Novelle per un anno di Pirandello – è un po’ il luna park dei personaggi, il luogo in cui possono presentarsi a frotte, magari consapevolmente ridicoli, in un’infinito caleidoscopio umano…

Hai centrato un punto fondamentale, credo. L’idea che l’umanità mi interessa più della letteratura. Non per umanismo, però, ma per sentimentalismo, voglio dire: scrivo perché mi commuovo. Accetto senza troppi problemi che mi si accusi di indulgere al melodramma, il mio stesso modo di scrivere (la sintassi a sbalzelloni, la tendenza all’aggettivazione, all’ossimoro, all’anafora) mostrano una propensione per quel che gli antichi chiamavano pathos. Per quel soffio singolare (possiamo chiamarlo pneuma o conatus, seguendo Spinoza) che mi rende così facile la scrittura in versi, fin dai trempi in cui copiavo Gozzano o Virgilio al liceo (piangendo sulla sorte di Didone o della Signorina Felicita). Non credo sia solo una questione personale, di temperamento. Perché in letteratura non c’è una verità dello scrivere, ma solo una sua attualità, una sensualità; tutte e tutti siamo alle prese col mondo che ci circonda, e se scrivendo lo dimenticassimo, saremmo obbligati a riprodurre sempre gli stessi schemi, gli stessi modelli (come in certi periodi letterari, non a caso noiosi). Da parte mia, a forza di sensi di colpa ma anche di reazioni a critiche ricorrenti, oggi mi sembra di poter ammettere senza paura di essere melodrammatico (nel senso di Fassbinder, cioè crudelmente). Il protagonista del mio ultimo romanzo (Corpi, 2024) ne è un perfetto esempio: “lui diceva che aveva imparato tutto da Baglioni, non certo da Thomas Mann (che lei adorava). Lei lo accusava di sentimentalismo, addirittura di populismo. Ma sentimentalismo e sentimento non sono la stessa cosa; e il secondo si nutre di quello che trova, fosse pure Ivana Spagna o Scialpi”. È un po’ una provocazione, ma questo bisticcio (che è poi stato anche quello con a mia editrice) nasconde qualcosa di profondo. Intendiamoci: sono poco a mio agio col melodramma, se diventa un omaggio o una fatua sovrastruttura estetica (pensa ai film di Todd Hayes), perché qui siamo nel campo della citazione, del pastiche. Che, ancora una volta, è un modello d’avanguardia, quasi un ready made. Preferirò sempre Mozart, che prende il libretto del cinico Da Ponte (Così fan tutte) e lo infarcisce di buoni sentimenti, di “perdono” (come scriveva nelle sue lettere alla moglie Constance): in pieno gioco, in pieno scherzo rococò, la musica di Mozart si commuove davvero… basta ascoltare “Sereno sia il vento” (nel primo atto). Aggiungo, nel mio caso, che c’è anche un effetto generazionale: non sono solo stato formato dalle canzoni (e dai clip di MTV, bruttissimi ma narrativi) ma anche da tutta una generazione – torniamo a Tondelli! – che ascoltava The power of Love e piangeva sui film di Ivory e Almodovar (La legge del desiderio); che leggeva Leavitt e Gore Vidal e provava le sue prime emozioni erotiche con L’amante di Duras (anzi peggio: con la versione cinematografica mélo di Jean-Jacque Anneau). Le mie letture di quegli anni – liberatorie (quindi politiche) – sono appunto Tondelli, Mancassola, B. Bianchi e anche e soprattutto Stephen King, che se ne frega di fare “alta letteratura”. Non è un atteggiamento anti-snobistico, ma è pura passione, pura sensazione, puro sentimento. Per quello che vale… cioè solo perché è fedele a una percezione singolare e personale della realtà. Cito spesso la famosa frase di Deleuze e Guattari, che partendo da Kafka, affermano che ogni scrittore deve praticare la sua lingua minore, della minoranza (minorata). Se devo essere fedele a quell’ingiunzione (etica) allora voglio davvero seguire i miei personaggi nel pianto e nel riso, devo fidarmi del calore che sprigionano, anche quando sono ridicoli… ma non siamo tutti un po’ ridicoli? È una questione di umanità, non di letteratura, e per me l’umanità resta sempre al di sopra della letteratura. Non per un imperativo morale, ma perché la letteratura è contenuta dall’umanità, non il contrario. È solo a questo patto che può parlarci senza finzione, senza cedere alle sirene dell’estetica (che è puramente concettuale e circostanziale, dice Kant). Allora sì, i personaggi, le piccole virtù (Ginzburg) e le viltà (Parise) sono il “sugo del sale”. Anche a costo di risultare sbavato, eccessivo. La via maestra dei racconti – con la folla dei personaggi scollacciati che si presenta una volta di più nello studiolo del buon Pirandello o del dottor Cechov – porta anche verso un poli- (addirittura “anti-“) stilismo, verso un umanesimo integrale (per usare l’espressione di Maritain, non a caso molto influente sull’opera di uno dei miei scrittori preferiti, Georges Bernanos). Non so se ho risposto alla tua domanda, che è calorosa e complessa, ma su questo tema è come se dovessi deporre le armi (dell’intellettuale), scrivere e basta, con quel poco di umanità che ho intorno e dentro (se possibile). Preferisco essere ridicolo, infantile, che cinico, ed è una scelta ovviamente del tutto personale.

Vorrei chiudere con un paradosso: stai per pubblicare un romanzo – che conclude la Trilogia dell’uomo solo (Come caniEffetto notteCorpi: 2015-19-24)… Certo puoi rispondermi che l’ultimo romanzo è una sorta di chiusa, di resa dei conti, però so che l’hai scritto a Montréal, stimolato dalle stesse esigenze emotive da cui è nato il primo volume di racconti e la volontà di “abbandonare” (un po’ melodrammaticamente) il romanzo. Non è contraddittorio?

Corpi: rilavorandoci, tra l’altro in un brutale conflitto con la mia editrice, ho scoperto ch’era un romanzo pulviscolare, nel senso che a questa parola danno Deleuze e le teorie queer. Fatto non di linee ma di granuli, come una televisione alla fine dei programmi, se mi passi l’immagine banale. Si nota poco perché il romanzo in questione è tradizionale nella forma… eppure i suoi temi – cioè quelli di una sessualità che non si pone più in un continuum, su uno spettro maschile-femminile (omo-etero) ma come una percezione diffusa, indefinibile e sensuale – sono totalmente queer, come il personaggio di Andrea. È pur vero che questo testo si situa davvero allo snodo di qualcosa: ero già pronto per andare altrove ma mi mancavano i mezzi. E non solo perché rifiuto la visione del mondo totalizzante del romanzo, portata dalla forma mentisdella borghesia industriale (patriarcale, eterocentrica e quant’altro), ma anche perché io stesso non sono uno scrittore d’avanguardia, non posso sfondare il muro della narrazione o del realismo (cosa tra l’altro, già avvenuta e in parte “rientrata” storicamente). Voglio ancora raccontare, raccontarmi delle storie… da qualche anno ero in un vicolo cieco senza saperlo. La prova è nel fallimento dei tentativi (citerò tre mie romanzi inediti): l’alambiccata struttura del Pesce clown, la parte mistica delle Città viste dell’alto, il maldestro tentativo autofinzionale di Réparer les morts (su mio nonno). Per temperamento, per amore (della vita), se vado in quella direzione mi ritrovo sempre incastrato in dispositivi decostruttivi sbilanciati, volonterosi. Devo ammettere che il passaggio – ed è tanto meglio – s’è fatto un po’ caso: mi hanno chiesto di scrivere dei racconti, ci ho preso gusto, sono partito per il Canada ed avevo due mesi per proseguire l’esperienza ho dato libero corso alla mia grafomania. Senza quasi che lo volessi, senza cercarlo, i racconti sono diventati il modo per rispondere all’impossibilità (mia) del romanzo. Ho scoperto che lì potevo, sapevo sperimentare, protetto dalla consapevolezza che non era un puro atto in perdita, cioè per essere onesti che io stesso come lettore non mi perdevo nel testo, ma anzi godevo delle sue piccole infrazioni: racconti senza finale o brutalmente interrotti, storie a rovescio, dettagli trasformati in narrazione, realismo magico (una novità per me), pure atmosfere, ecc. Insomma, quasi un processo naturale, rassicurante in fondo, perché arrivato a cinquantacinque anni potrei metter su pancia e ripetere sempre le stesse misure, lo stesso passo. Anzi no, il passo, il fiato, è sempre lo stesso, cioè quello della ricerca, ma non per forza della dispersione (che ha caratterizzato nel bene e nel male le avanguardie). Tutto questo può apparire ambizioso, pomposo (cioè i discorsi di chi si prende molto sul serio e parla di sé in termini di storia letteraria), ma avrai capito che non si tratta di letteratura, ma anche e soprattutto della mia stessa pulsione di scrittura: scrivo quello che vorrei leggere, racconto quel che vorrei mi raccontassero, oso parlare di quel che non trovo nei libri, eccetera. Tutto qui.

Intervista realizzata a Losanna, 16-28 gennaio 2024